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La Strada della speranza. Il racconto di Odeh Osaru
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di Luca D’Anna e Gaetano Alessi

La Strada della speranza. Il racconto di Odeh Osaru

Osaru Odeh è un ragazzo nigeriano, arrivato in Italia durante l’ondata di sbarchi dello scorso anno, prima che l’accordo fra Italia e Libia rafforzasse i controlli alle frontiere e ricacciasse indietro le masse di uomini che quotidianamente cercano di raggiungere l’altra sponda del Mediterraneo.

Osaru, chi sei tu e cosa ti ha spinto a lasciare il tuo paese?
Il mio nome è Odeh Osaru e sono originario della Nigeria (stato di Edo). Ho lasciato il mio paese a causa di mio padre, Stephen Odeh: era un politico dell’Action Congress Party, fuoriuscito dal PDP (People Democratic Party). La sua decisione di lasciare il precedente partito causò la forte opposizione dei membri del PDP, che quotidianamente venivano a casa nostra, cercando di convincere mio padre con la violenza. Hanno ucciso mia madre e uno dei miei fratelli. Nell’aprile 2007 sono arrivati e hanno cercato di portare via mio padre con la forza. Io e il mio fratello maggiore, che adesso si trova in Marocco, abbiamo cercato di convincerli a non farlo, ma gli uomini del PDP hanno cominciato a picchiarci. Avevano accette e machete, mi hanno ferito alla testa e al dito e, credendo che fossi morto, hanno portato via mio padre. Mio fratello, che era scappato via, è ritornato dopo qualche ora  e mi ha portato in ospedale. Un amico di mio padre venne quindi a parlarci, dicendo che il PDP era a conoscenza del fatto che io ero vivo e che era necessario andare via. Riuscii a racimolare qualche soldo e scappai via dal mio paese, il 28 aprile 2007, insieme a mio fratello.

Qui in Italia si sa ancora molto poco di cosa avvenga durante questi viaggi: come sei arrivato in Italia?
Dalla Nigeria siamo passati in Niger (stato di Zinden) senza problemi, quindi ci siamo spostati ad Agades. I soldi che avevamo non erano abbastanza, così sia io che mio fratello abbiamo cercato un lavoro per guadagnare il denaro necessario. Ho lavorato quattro o cinque mesi con un uomo che contrabbandava sigarette da Agades in Libia, attraverso il deserto. Non ricevevo nessun salario, l’uomo si limitava a garantirmi vitto e alloggio. A volte, però, riuscivo a rubare delle sigarette e le rivendevo per conto mio, nascondendo i soldi. Un giorno l’uomo mi ha portato con sè in Libia per vendere una partita di merce e ritornare indietro. Al ritorno vidi mio fratello, che mi comunicò la sua decisione di andare in Marocco: gli dissi semplicemente che non l’avrei seguito, perché dalle informazioni che avevo ero a conoscenza del fatto che la rotta che attraversava l’Algeria era troppo pericolosa. Gli dissi invece che sarei andato in Libia, così le nostre strade si separarono. L’uomo mi portò da un tale Hafez, che di professione trasportava i migranti da Agades a Duruku su di un camion. Eravamo più di cento e durante la strada abbiamo incontrato una squadra di predoni: hanno attaccato il camion, rubato i nostri soldi, il cibo e l’acqua. Hanno anche bucato con i loro coltelli le taniche d’acqua che non sono riusciti a portare via, così che ci siamo trovati senza alcun genere di provviste e con molta strada ancora da fare. Hanno violentato molte delle ragazze che erano con noi, otto di loro sono morte. Anche il conducente era stato ucciso, con un colpo di pistola al collo.  Un ragazzo del Ghana, vedendo che i predoni requisivano il denaro, ha tentato di nascondere i soldi che aveva ingoiandoli. Uno di loro si è accorto di quello che stava succedendo, ha preso il ragazzo e l’ha sgozzato, prendendo i soldi direttamente dalla sua gola. Ci hanno fato spogliare nudi e hanno cominciato perquisizioni anali per i ragazzi e, ovviamente, anche per le ragazze. Arrivavano a darci da bere farina di banku mischiata ad acqua, che causava violenti attacchi diarroici, per assicurarsi che nessuno di noi avesse nascosto i suoi soldi nell’ano. Ripetevano in continuazione: “Dove andate? Perché avete lasciato le vostre case?” Ci pestavano con i calci dei fucili, come animali. Erano in otto, con tute mimetiche da soldato, ed erano arrivati su quattro grosse moto. Uno dei ragazzi che viaggiava con noi era in grado di guidare il camion e ci portò fino a Duruku. Sono rimasto lì per molti giorni. L’uomo per cui lavoravo ad Agades mi diceva di aspettarlo dov’ero: lo avrei aiutato a caricare della merce e mi avrebbe portato in Libia. Dopo due settimane, tuttavia, non era ancora arrivato. A Duruku viveva invece un nigeriano, Lucky, a cui mi rivolsi, dicendogli che volevo continuare il viaggio fino in Libia. Questa volta eravamo in 36, ragazzi e ragazze, su una specie di pick-up, stretti come animali da macello. Il viaggio poteva durare nove giorni come due mesi, dipendeva dalla bravura dell’autista con le cartine e la bussola. La situazione era drammatica: chi aveva cibo o acqua non era disposto a dividerli neppure con il suo migliore amico. Potevi anche vederlo morire e ti saresti limitato a seppellirlo, perché dare da mangiare a lui significava morire di fame alla prossima tappa. Non sapevamo quanto sarebbe durato il viaggio, anche una madre si sarebbe dimenticata del proprio figlio. Una volta abbiamo chiesto al conducente di fare una sosta per riposare, ma l’uomo ha risposto di no. Eravamo così stretti sul pick-up che una ragazza è morta e ce ne siamo accorti dopo tre ore. Se il pick-up ti sbalzava fuori, nessuno ti avrebbe dato il tempo di rimontare su.
Partimmo da Duruku per la Libia. Lungo il viaggio incontrammo di nuovo i ribelli (predoni): ci ordinarono di scendere dal pick-up e di consegnare tutti i soldi in valuta nigeriana che possedevamo, ma questa volta non aggredirono nessuno. Dopo tre giorni rimanemmo senz’acqua, con le sole provviste di cibo, così decidemmo di fermare il mezzo. L’autista ci disse che sarebbe andato a cercare dell’acqua nel deserto. Nel mentre avevamo perso due ragazze nigeriane, un ragazzo ghanese ed un altro nigeriano. L’autista tornò con dell’acqua veramente sporca, ma fummo comunque costretti a berla. Quattro persone morirono nel deserto, probabilmente a causa dell’acqua. Le seppellimmo e procedemmo oltre. Dopo qualche ora l’autista ricevette una chiamata al suo telefono: nel deserto c’erano soldati libici, per cui avremmo fatto meglio a nasconderci da qualche parte. Ci nascondemmo per due giorni, bevendo l’acqua che lui aveva portato e mangiando il cibo che ognuno di noi aveva con sé. Nel frattempo la batteria del telefono dell’autista si era scaricata; essendo privi di contatti con il mondo esterno decidemmo di partire, ma ben presto incontrammo i soldati, che ci arrestarono come immigrati. Eravamo a Gartron. Ogni giorno, per tre mesi, i soldati ci chiamavano uno ad uno per mangiare, e ci picchiavano prima che cominciassimo e dopo che avevamo finito. Mangiavamo due volte al giorno, all’incirca alle dieci del mattino e della sera. Dopo tre mesi i nostri secondini cambiarono: arrivò un uomo buono, che chiese a dieci di noi di andare a lavorare per lui. Lavoravamo nelle baracche dei soldati, le ripulivamo e facevamo altri lavoretti del genere. Dopo un po’ di tempo l’uomo ci portò a Saba. Io dormivo in un edificio in costruzione, fino a quando trovai un nigeriano che mi ospitò a casa sua. Per due settimane andai ogni giorno a cercare lavoro a Shougo Gland, un luogo dove si riunivano tutti gli immigrati in cerca di lavoro, aspettando che qualcuno li prendesse a giornata. Incontrai un arabo, un elettricista, che mi prese con lui. Se l’uomo trovava lavoro a Tripoli o in altri posti mi portava con lui e poi ritornavamo insieme a Saba. Un giorno eravamo a Tripoli e, prima che il lavoro fosse finito, arrivò un’altra commissione da Zwara. Il lavoro a Zwara era molto abbondante, non avevamo il tempo di finirne uno che ce ne veniva proposto un altro. La polizia libica mi vide con lui e gli disse che non poteva usare neri al lavoro, perché eravamo clandestini in Libia. L’uomo mi disse che non voleva problemi con la polizia libica e che, perciò, dovevo andarmene. Non avevo amici a Zwara, era difficile trovare qualcuno che ti desse un posto per dormire. L’uomo mi diede 300 dollari e mi disse di andarmene. Andai vicino alla spiaggia, dove c’erano edifici in costruzione, per trovare un posto in cui dormire. L’uomo stesso mi chiamò per chiedermi dove fossi ed io risposi che ero a Zwara. Mi chiese di incontrarlo perché mi potesse presentare suo fratello: l’appuntamento era in un posto chiamato “Piazza”. Il fratello era una brava persona, mi chiamava ogni volta che aveva un lavoro. Gli feci vedere dove dormivo e lui mi disse di tenere gli occhi aperti, di fare attenzione al minimo rumore, anche di notte. L’uomo mi chiamava spesso, per fare le pulizie o lavorare in campagna. Un giorno, mentre dormivo, sentii persone parlare in arabo vicino al luogo in cui dormivo. Vidi una barca che si avvicinava alla riva e un gran numero di persone che facevano a gara per salirvi sopra. Un mio amico esclamò che quella gente stava andando in Italia. In ogni caso, disse, dovunque essi vadano andiamo con loro. Ci precipitammo sulla barca. Passammo sei giorni in mare e una ragazza nigeriana morì durante il viaggio. Dopo sei giorni vedemmo gente che pescava, ci videro e chiamarono i soccorsi, che arrivarono dopo circa mezz’ora e ci portarono a Siracusa. La prima persona che incontrai fu Stefania (operatrice di Save the Children), che ci rassicurò
dicendoci che in Italia non avremmo avuto problemi. Ho passato i primi mesi nella comunità “Alice” (Palma di Montechiaro), prima di essere trasferito a Joppolo.

So che i motivi per cui hai lasciato il tuo paese sono legati ad una situazione di pericolo, ma qual è la differenza fra l’idea che avevi dell’Italia e la realtà con cui ti sei dovuto misurare?
In realtà non mi aspettavo che l’Italia mi desse niente. Tutto quello che chiedevo è che mi lasciassero entrare, perché non so cosa potrebbe succedermi se dovessi ritornare nel mio paese. 

Non so se segui i telegiornali italiani, ma nel nord Italia alcune formazioni politiche stanno portando avanti campagne molto dure contro gli immigrati. In un piccolo paesino un sindaco è arrivato addirittura a lanciare una operazione chiamata “White Christmas”, per “ripulire” il paese dagli immigrati nel periodo natalizio. Che effetto ti fa sentire queste notizie, qual è la tua opinione in merito?
Quello che stanno facendo non è giusto. In Italia il governo è un governo civile (non militare) e questo rende ancora più gravi le sue responsabilità. Se tagliate la mia mano e la vostra, il colore della pelle è diverso, ma quello del sangue sarà lo stesso. Non ci dovrebbe essere alcuna differenza fra il trattamento riservato ai bianchi e ai neri. Per farla breve, la libertà dovrebbe essere garantita a tutti.

Tu vieni da un paese in cui si parlano quattrocento lingue e in cui gli abitanti sono abituati a convivere con fedi diverse da secoli. Qual è il tuo punto di vista sulla contrapposizione Cristianesimo – Islam che in certi ambienti viene presentata come un tratto caratterizzante degli ultimi anni di storia mondiale?
Quello che penso è che Cristiani e Musulmani dovrebbero agire in maniera concorde. Io sono musulmano, ma proprio per questo sono cosciente del fatto che c’è un solo Dio. Anche i Cristiani credono in un solo Dio e questo dovrebbe bastare. Per il resto, credo che in molti paesi la religione sia usata come un’arma per eliminare personaggi o intere popolazioni “scomode”, ma questo, purtroppo, non è solo un problema legato alla religione.

L’intervista è frutto di una lunga conversazione ed è stata tradotta dall’inglese. L’azione stessa del tradurre mi induceva quasi meccanicamente a smussare certi spigoli, a dare un senso a certi periodi brevi che Osaru mi ripeteva nel suo inglese corretto ma smozzicato, alternando momenti di disinvoltura ad altri di pudore disarmante. Ho cercato, per quanto possibile, di resistere ala tentazione di “sistemare” il pezzo, perché ciò avrebbe significato dare una veste razionale all’esperienza di un ragazzo di vent’anni, catapultato da un continente all’altro e rimasto in balia di tutto e di tutti per due anni. Perdonerete quindi la scarsa eleganza della prosa, ma sono convinto che razionalizzare, in certi casi, sia il primo passo verso la giustificazione delle sofferenze subite quotidianamente da milioni di uomini, cosa che mi ripugna profondamente (Luca D’Anna).


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