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Ahmad Zeydabadi, condannato al silenzio
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di Marco Curatolo*

Ahmad Zeydabadi, condannato al silenzio

L'ultima volta che ha guardato il cielo dalla finestra di casa sua erano trascorse solo poche ore dalle elezioni di giugno. La grande truffa era stata appena consumata, Ahmadinejad era di nuovo presidente della Repubblica Islamica dell'Iran. Ahmad Zeydabadi, quando milioni di suoi connazionali si sono rovesciati nelle strade del paese per protestare contro i brogli e chiedere dove fossero finiti i loro voti, si trovava già in un luogo per lui al tempo stesso sinistro e familiare: il carcere di Evin.

Lo hanno arrestato così: un agente in borghese, con il volto coperto da un casco, ha bussato alla porta della sua abitazione e ha chiesto di lui spacciandosi per un postino. Zeydabadi non era in casa, ma la sorte ha voluto che stesse rientrando in quel momento. “Cerca qualcuno?”, ha domandato all’uomo con il casco. “Devo consegnare un pacco al signor Zeydabadi”. “Sono io”. Per riconoscerlo, il finto postino gli ha chiesto un documento. Quando è stato certo di chi avesse davanti, ha fatto un cenno e altri agenti in borghese sono sbucati dal nulla e sono saltati addosso a Zeydabadi immobilizzandolo come si fa con un pericoloso criminale. Era il 13 giugno 2009, 232 giorni fa.

Giornalista, esperto di relazioni internazionali e Medio Oriente, collaboratore di testate web come Roozonline e BBC Persian, Ahmad Zeydabadi è soprattutto il presidente di Advar Tahkim Vahdat, associazione di ex studenti laureati, nata negli anni della rivoluzione come organizzazione islamica, e poi evoluta fino a diventare una delle più note associazioni politiche riformiste e democratiche del paese, in prima linea nella difesa dei diritti umani e con posizioni politiche all'avanguardia (per esempio per quanto riguarda l'energia nucleare). Non è un caso che i membri di Advar Tahkim Vahdat il carcere di Evin lo conoscano bene: un altro dei leader del gruppo, il portavoce Abdollah Momeni, è a sua volta in prigione da giugno.

Zeydabadi ha trascorso a Evin altri lunghi periodi della sua vita. Un continuo dentro/fuori cominciato il 7 agosto del 2000 (fu rilasciato a febbraio dell'anno dopo) e continuato nell'aprile del 2003 (altri 6 mesi di carcere).

Il 2 gennaio 2010 la corte d'appello di Tehran ha confermato, rendendolo definitivo, il verdetto che il Tribunale rivoluzionario aveva emesso contro Zeydabadi a novembre: 6 anni di prigione, 5 in confino a Gonabad, la perdita a vita dei diritti civili e politici. Una sentenza tale da trasformare Ahmad Zeydabadi in un cittadino "dimezzato". Non soltanto la prigione, non soltanto i lunghi anni da trascorrere in un luogo lontano centinaia di chilometri dalla sua casa e dai suoi cari: anche dopo che avrà scontato la pena Zeydabadi non potrà recuperare il suo diritto a partecipare attivamente alla vita politica, a svolgere liberamente la sua professione, a scrivere e comunicare attraverso gli organi di informazione. Il regime lo ha perciò imbavagliato a vita, lo ha eliminato dalla scena sia come protagonista che come testimone.

Con la forza dei decreti tribunalizi, i giudici hanno stabilito quello che i carcerieri, per sette mesi, non sono riusciti a ottenere direttamente da Zeydabadi. Lo hanno tenuto in isolamento per più di 140 giorni; lo hanno sottoposto a interrogatori sfibranti, a pressioni, a minacce; lo hanno tenuto chiuso per 35 giorni in una cella-loculo larga un metro e mezzo, cercando di convincerlo che - fuori - il mondo si era scordato di lui; lo hanno spinto sull'orlo della pazzia e del suicidio. Tutto per costringerlo a dichiarare pubblicamente che non avrebbe mai più svolto attività politica e giornalistica. Tra le altre accuse, quella di essersi rivolto - anni fa - con una lettera aperta alla guida suprema dell'Iran, Ali Khamenei, omettendo l'aggettivo "suprema" accanto al sostantivo "guida". Zeydabadi, in quella lettera, chiedeva di autorizzare un libero dibattito sulla questione nucleare. "Abbiamo il potere di fare di te quello che vogliamo", gli hanno urlato in faccia a Evin. "Firma queste carte o te le facciamo mangiare!"

Ahmad Zeydabadi non ha firmato.

Dal 13 giugno scorso Zeydabadi non ha mai messo un piede fuori dal carcere. Il rilascio su cauzione, concesso a molti altri prigionieri in questi mesi, a lui è stato promesso molte volte (talvolta è parso imminente, questione di ore) ma all'ultimo momento è stato sempre negato. E' una forma di tortura psicologica anche questa. Nel frattempo, l'associazione internazionale di editori World Association of Newspapers and News Publishers (WAN-IFRA, per l'Italia ne fa parte la FIEG) ha conferito a Zeydabadi il premio Golden Pen of Freedom 2010. Ma la "Penna d'oro di libertà" è in prigione da 232 giorni, e ci resterà.

Pochi giorni fa, da Evin Zeydabadi è stato traferito nel carcere di Gohardasht (a Karai). Gli iraniani lo chiamano “dog house”, il che è tutto dire. È un luogo di fama sinistra e di memorie tristissime. Qui, negli anni successivi alla Rivoluzione del 1979, è stata sistematica l’eliminazione dei prigionieri politici: monarchici, militari fedeli allo Shah, simpatizzanti marxisti o socialisti, sostenitori dei Mojaheddin, oppositori e dissidenti.
Si conferma con ciò l’ultima crudeltà del regime, quella di rinchiudere i giornalisti prigionieri politici in prigioni malfamate in cui il contatto con delinquenti comuni li sottopone a pressioni ulteriori e ne mette a repentaglio la stessa incolumità.

Le notizie che filtrano dal carcere raccontano che Ahmad Zeydabadi tiene duro e resiste. Ma fino a quando?

 

* dal blog “Amici dell’Iran”


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