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Articolo 21 - Editoriali
Le botte a Yoani e la vita dei giornalisti a Cuba
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di Stefano Marcelli*

E’ ancora sotto choc, Yoani Maria Sanchez, la più famosa blogger cubana, mentre racconta a Rachele Gonnella dell’Unità l’aggressione subita da agenti della polizia segreta all’Avana: “ Ero per strada, stavo andando a una marcia per la non violenza organizzata da alcuni giovani artisti al Vedado, quartiere residenziale dell’Avana. Ero quasi arrivata al luogo del concentramento, la calle 23 del Barrio Nuevo, quando siamo stati fermati da tre sconosciuti a bordo di un’auto nera di fabbricazione cinese. Mi davano botte sulle parti scoperte, mi insultavano. In un atto disperato ho afferrato uno per i testicoli. Mi ha schiacciato il petto con il ginocchio fino a togliermi il respiro. Non mi hanno fratturato nessun osso e non ho ferite da cui è uscito del sangue. Ma sono piena di lividi e di dolori alla colonna vertebrale e al petto. Da un occhio non ci vedo tanto bene. Non hanno voluto lasciare segni evidenti sul mio corpo. Sono dei professionisti delle intimidazioni. Come i camorristi, no? “
La blogger trentenne cita la camorra, perché avrebbe dovuto incontrare Roberto Saviano alla Fiera del Libro di Torino, ma anche stavolta il regime le ha impedito di andare all’estero. I mafiosi hanno metodi ben più pesanti per intimidire e lanciare avvertimenti. Ma a Cuba, la violenza contro i dissidenti, i “ controrivoluzionari “, è un’attività di Stato spalmata nella quotidianità dell’esistenza. Secondo l’ONU, nel 2008 sono state un migliaio le incarcerazioni brevi legate a  “ problemi ideologici “.
Nella graduatoria stilata da Reporteres Sans Frontieres, Cuba si colloca al terzo posto, dopo Cina ed Eritrea, per numero di giornalisti incarcerati: sono più di venti. Molti di loro appartengono ancora alle vittime della Primavera Nera del 2003, quando, a marzo, furono arrestati in più di cinquanta.
Ma non c’è solo il carcere. Cosa voglia dire fare il giornalista indipendente a Cuba, lo spiega bene in un articolo per il CPJ ( Comittee to Protect Journalists ) Luis Cino, un veterano della categoria che collabora con siti e agenzie di stampa straniere : “ Tutti i giornalisti indipendenti hanno condiviso le stesse esperienze. L'inizio casuale, i primi arresti da parte della polizia politica. La persecuzione sistematica, il telefono sotto controllo, la sensazione di non sentirsi mai al sicuro, che chiunque di quelli intorno a voi può essere una spia. Le azioni di rappresaglia contro la tua famiglia. Amici che smettono di farti visita. Vicini di casa che evitano di salutarti in pubblico. Fa male, ma capisco: hanno paura.
Sono solo i primi ostacoli che hanno incontrato nel loro lavoro. Privati di cifre e dati ufficiali, sapendo che sono sicuramente manipolati, sapendo che devi utilizzare le notizie di fonti inaffidabili. I funzionari, per paura di rappresaglie, si possono negare oggi ciò che hanno affermato ieri “.
E il carcere, la violenza, certo, sono sempre in agguato:
“ La cosa più difficile è adattarti all’idea che tu e i tuoi amici domani potreste essere in prigione. La storia che ti racconta la madre o la moglie di un detenuto, può diventare la tua. E’ un ampio e duro apprendistato che non terminiamo mai del tutto “.
Ma la testimonianza del collega Cino si conclude con una dichiarazione che fa intravedere la speranza e indica i nuovi impegni in una futura Cuba finalmente democratica :
“ Le sfide non finiscono con l'avvento della democrazia. Faremo parte di coloro cui spetta il compito di educare le persone a vivere in libertà. E anche noi dovremo imparare. Invece di affrontare i repressori e i burocrati del Partito Unico, non dovremo far altro che denunciare i politici corrotti e demagoghi. Se, disgraziatamente, sarà così, non esiteremo a farlo. Quando abbiamo scelto il lavoro del giornalismo indipendente sotto una dittatura, lo abbiamo fatto sapendo che abbiamo iniziato un cammino senza alcun biglietto di ritorno ”.
Caro Cino, non sai quanto tu abbia ragione, in questa tua parabola sul giornalismo investigativo ( giornalismo vero ) in condizione di dittatura e democrazia. E’ comunque un mestiere sempre più raro e scomodo a ogni latitudine.
A Cuba un’ora di connessione ad internet costa sei dollari, il salario medio si aggira sui venti dollari al mese, gli strumenti informatici hanno gli stessi costi dei Paesi occidentali. Le connessioni sono autorizzate ( e controllate ) dalla società telefonica governativa ETECSA e sono lentissime. Per poter lavorare, i blogger, devono rivolgersi agli alberghi internazionali o alle ambasciate di Olanda e Stati Uniti, ma ai dissidenti è vietato frequentare quei luoghi. L’ Università di Scienze Informatiche dell’Avana collabora al controllo su internet.
Censura e repressione non riguardano quindi solo i giornalisti,  Cuba. Tentare di entrare in contatto con il mondo, nell’isola di Fidel e di Raoul, è già un reato.

* presidente Information Safety and Freedom


 
 
 
 
 

 

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