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Articolo 21 - Editoriali
Il caso “Google- ViviDown” riapre la questione della governance di internet
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di Vincenzo Vita

Rete, censura, privacy, diritti... il caso “Google- ViviDown” riapre la questione fondamentale della governance di internet. Un processo sotto i riflettori mondiali, un case-history legislativo, un fenomeno tra i più visti e sentiti nell’era del web 2.0.
Tre dirigenti di Google sono stati condannati a sei mesi di reclusione dal Tribunale di Milano accusati di diffamazione e violazione della privacy.
La vicenda risale al 2006, quando quattro studenti torinesi picchiavano e insultavano un loro compagno affetto da sindrome di down e  dopo aver ripreso questa scena di inaudito bullismo, caricavano il video su YouTube classificandolo come “funny”, cioè divertente.  Per i giudici milanesi il diritto d’impresa non può prevalere sulla dignità della persona. Tuttavia, l’interpretazione si scontra con altre giurisprudenze. Infatti, mentre per il Tribunale di Milano il provider del servizio risulta responsabile del contenuto messo online,  secondo la direttiva europea sul commercio elettronico gli intermediari - che hanno un ruolo passivo nel trasporto di informazioni provenienti da terzi - sono esonerati da qualsiasi responsabilità.  Anche per il decreto legislativo 70 del 2003 il provider non è responsabile per i contenuti immessi dagli utenti, se li rimuove appena viene effettivamente a conoscenza di un fatto illecito. Così come sostiene il comitato per la gestione di internet in Brasile: “la responsabilità per le attività illecite è personale e non di chi offre i servizi di connessione e le piattaforme di comunicazione”.
Ma qui la questione diventa delicata. Internet è davvero uno spazio pubblico autoregolamentabile? Secondo la filosofia del diritto la libertà personale è assoluta ma trova un limite invalicabile nel rispetto della libertà altrui. Non si può esercitare la propria libertà individuale violando e offendendo quella degli altri. Ed è qui che interviene la legge, appunto per regolare la convivenza civile. E’ evidente ormai la necessità di un Internet Bill of Rights.
Definire Internet uno spazio pubblico e credere che possa essere “extra legem” non è una questione di punti di vista, di chi vuole mettere bavagli alla rete e di chi la vuole libera. Piuttosto si tratta di armonizzare, con la specifica natura costitutiva della rete ciò che già è patrimonio comune. “Se la conoscenza è un bene comune – come ricorda Rodotà – possiamo affidarla tutta soltanto a una mediazione privata, come quella di Google e di pochi altri mediatori?”
Le iniziative censorie da parte del Governo sono sempre sbagliate. Per questo abbiamo contrastato e contrastiamo il c.d. "decreto romani". Non servono filtri o marchingegni improbabili. Serve l'autoregolamentazione, supportata da una profonda cultura etica. Se, com'è, la rete è davvero il presente e il futuro di tutti noi.
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