di Vincenzo Vita*
Che cos’è la rete oggi? La grande scacchiera internazionale dove si giocano le partite più importanti tra colossi del web e potenze internazionali, come la Cina nella fase post analogica e post generalista? Oppure il web è un complesso spazio pubblico da valorizzare per gestire la forma più semplice di convivenza civile? Entrambe le cose, certamente.
Il caso Google-Vividown riapre tutte le possibili tesi di un dibattito già ampio che vede la rete protagonista e la privacy, i diritti e la censura, i "figuranti" di una pièce molto articolata.
La sentenza di un tribunale nazionale diviene un case-study legislativo, un processo sotto i riflettori mondiali, “l’elettroregime italiano” … All’estero la criticano, in Italia i blogger esprimono preoccupazione nei confronti di un clima censorio che dall’ “emendamento D’Alia”, alla proposta Carlucci, al disegno di legge Alfano sulle intercettazioni telefoniche, non fa altro che influenzare le vicende della rete a livello nazionale, fino ad arrivare allo scempio che il Governo sta tentando di fare col Decreto Romani, recependo in modo del tutto improprio una direttiva europea.
Perché la condanna a sei mesi di reclusione di tre dirigenti di Google accusati di diffamazione e violazione della privacy diventa così allarmante per il mondo intero?
Facciamo un passo indietro e torniamo nel 2006 quando quattro studenti torinesi picchiavano e insultavano un loro compagno autistico e, dopo aver ripreso, con la cam di un cellulare, questa scena di inaudito bullismo, caricavano il video su YouTube classificandolo come funny, cioè divertente.
A questo punto il dibattito si complica: chi è responsabile del video messo online? L’utente che lo carica o il provider che fornisce uno spazio? Per il Tribunale di Milano il provider del servizio risulta responsabile del contenuto messo ondine. Secondo la direttiva europea sul commercio elettronico gli intermediari - che hanno un ruolo passivo nel trasporto di informazioni provenienti da terzi - sono esonerati da qualsiasi responsabilità. E per il decreto legislativo n. 70 del 2003 il provider non è responsabile per i contenuti immessi dagli utenti, se li rimuove appena viene effettivamente a conoscenza di un fatto illecito. Così come sostiene, ad esempio, il comitato per la gestione di internet in Brasile: “la responsabilità per le attività illecite è personale e non di chi offre i servizi di connessione e le piattaforme di comunicazione”.
Solo la lettura della sentenza scioglierà i vari dilemmi, ma il dibattito è esploso e sarebbe un errore fermarlo. Tuttavia, se non si porta avanti una governance democratica della rete, i conflitti tra grandi major e stati sovrani e/o tribunali diverranno il futuro dello scenario del web e dei prossimi conflitti internazionali. “Se la conoscenza è un bene comune – come ricorda Rodotà – possiamo affidarla tutta soltanto a una mediazione privata, come quella di Google e di pochi altri mediatori?” E’ evidente l’urgenza e la necessità di un Internet Bill of Rights.
Di governance della rete si discute durante i vari forum delle Nazioni Unite, di cui l’ultimo si è tenuto a Sharm El Sheik. Occorre una proposta comune e condivisa che faccia perno sugli Stati, ma che si sviluppi su un’azione di coordinamento tra istituzioni internazionali, organizzazioni non governative e stakeholders.
L’autoregolamentazione non basta, forse. Tuttavia la censura non può essere la soluzione. E, comunque, si trovi una sintesi almeno provvisoria, prima che la libertà della rete (è già avvenuto con la vecchia televisione) si trasformi in un corpo a corpo tra i grandi trust e la magistratura. E gli internauti a guardare.
* l'Unità - 27 febbraio 2010