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di Federico Orlando
Il direttore del giornale di Berlusconi, Vittorio Feltri, ha scritto queta lettera aperta al cavaliere : “Caro presidente Berlusconi, leggo sulle agenzie che lei è favorevole ad uno sciopero degli italiani contro i giornali perché disinformano e prendono in giro i lettori. Sarebbe una buona idea se non presentasse un rischio: che gli italiani poi la applichino anche ai politici. I quali nel nostro Paese sono i soli più bravi dei giornalisti a prendere in giro i cittadini, lettori ed elettori”.
Ci piacerebbe che questo linguaggio ironico e tranchant fosse usato dai partiti d’opposizione, in parlamento e no, forse in altre faccende affaccendati . Comunque andremo avanti da soli, non avendo alcuna voglia di convergere nella cultura berlusconiana del potere. Ha ricordato Ezio Mauro, direttore de La Repubblica: “In Occidente, non s’è mai visto un capo di governo impegnato ad eccitare una impossibile rivolta populista per far tacere le poche voci critiche che rompono il coro (…) Siamo davanti a un presidente del consiglio che teme la pubblica opinione. E a un editore che teme i giornali. Possiamo assicurarli entrambi, spaventati dalla verità e dalla libertà, che continueremo a fare il nostro mestiere: perché i cittadini vogliono sapere per poter giudicare, e non prendono ordini dal premier”.
Proposito eccellente, anche se dobbiamo difenderci da due contestazioni, una caratteriale, l'altra di sostanza. La prima si manifesta, per esempio, negli incredibili personalismi alla Sansonetti, le cui probabili frustrazioni diventano irrisione. Dire, in sostanza, che la stampa non è libera non per Berlusconi che minaccia il bavaglio ma perché è essa stessa parte del potere, e dunque non è, come dovrebbe, contropotere, è solo una constatazione storica: dare mezzi e spazi a un'informazione libera sarebbe l'unica cura, forse, per non costringerla ad ancella del potere. La seconda si manifesta nella voglia matta del potere di trasformare l'ancella, e a maggior ragione chi non lo è, in schiava. Lo dimostra la recente vicenda di Le Monde, che è costretto a pagare il primo costo alla sua tradizionale indipendenza: in un paese di antica, diffusa e salda cultura dei diritti , quale la Francia. Le Monde ha dovuto accettare di cedere la proprietà della testata per 100 milioni di euro a una cordata di tre imprenditori. I quali erano giudicati da Sarkozy troppo à gauche e perciò a lui sgraditi, così involontariamente l'Eliseo ha favorito la reazione dei rappresentanti del personale in consiglio d’amministrazione, che hanno votato per la cordata. Ma se non c’è rischio (nessuno per ora ne vede) che il giornale vada à droit, tuttavia – come ha scritto il corrispondente della Stampa da Parigi, “non sarà più lo stesso giornale di un tempo”. Finisce cioè, quasi certamente, “quella che era la maggiore garanzia della sua indipendenza: il potere di veto che la società dei redattori aveva sulle scelte chiave del giornale, per esempio la nomina del direttore.” I nuovi padroni hanno promesso stabilità dell’occupazione, una “minoranza di veto” ai salariati, ecc. Ma qui non stiamo parlando di Panda e Pomigliano: qui la preoccupazione, prima dell’occupazione in “un giornale” sia pure prestigioso, è la libertà dei giornali, di tutti i giornali di non essere merce di scambio degli editori: bavaglio a commenti e notizie contro favori governativi a imprenditori. I rischi sono molti e vengono da molte parti, a cominciare dai debiti. Da Le Monde ci arriva almeno un esempio: un gruppo di giornalisti che dice no al presidente-governante Sarkozy, in nome della libertà di essere stessi. E' solo il principio di un discorso che dovremo fare anche in Italia, comunque è un principio.
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