Articolo 21 - Editoriali
Il libro di Antonio Roccuzzo, i movimenti antimafia e Roberto Morrione, limpido maestro del giornalismo civile
di Carmine Fotia
“Il mio augurio a tutti voi, a ciascuno di voi, è che abbiate un
motivo per indignarvi. E’ fondamentale. Quando qualcosa ci indigna
come a me ha indignato il nazismo, allora diventiamo militanti, forti
e impegnati”.
Stavo trascrivendo le succitate parole del grande vecchio francese
Stéphane Hessel, autore di quell’Indignatevi! che ha scosso la Francia
e sollevato addirittura un movimento, “Gli Indignados”, in Spagna, che
mi servivano per la recensione del libro di Antonio Roccuzzo “Mentre
l’orchestrina suonava Gelosia”, quando ho appreso la notizia della
scomparsa del carissimo Roberto Morrione. Ho pensato allora che invece
di un necrologio o di un semplice ricordo, fosse più giusto, almeno
per me, ricordare Roberto come uno dei più limpidi maestri di quel
giornalismo civile e appassionato, di quei movimenti antimafia, cui il
libro di Roccuzzo è dedicato. Allora ho cercato le parole che avrebbe
cercato Roberto, ho provato a pensare come avrebbe pensato lui.
Soprattutto, mi sono detto che la vita di Roberto tutta intera, il suo
lavoro, il suo impegno sindacale, quello, fino all’ultimo respiro, nel
movimento antimafia, sono il più limpido appello all’indignazione come
molla dell’impegno civile che si possa trovare.
Il libro di Roccuzzo, edito da Mondadori, a metà tra l’autobiografia e
la cronaca, è la storia della ribellione di un giovane catanese,
rampollo di una famiglia della buona borghesia cittadina, il papà
notaio, la mamma insegnante, che a un certo punto della sua vita,
mosso da null’altro che dalla precoce passione per il giornalismo,
incontra sulla sua strada un giornalista, intellettuale e scrittore
“irregolare”, Giuseppe “Pippo” Fava, fondatore della rivista I
Siciliani, assassinato dalla mafia nella vigilia dell’Epifania del
1984, mentre attendeva la nipotina all’uscita del teatro comunale dove
recitava in una commedia di Pirandello.
La storia di questa ribellione, che diventa collettiva proprio
perché nasce dal rifiuto individuale di quella ingiustizia, è la
dimostrazione che neppure un buon giornalismo è possibile se non
scatta la molla dell’indignazione. Proprio la storia raccontata da
Antonio, quello di una generazione di giovani cronisti raccolti
attorno a un personaggio carismatico e anomalo come Pippo Fava,
dimostra che, laddove esiste un potere prevaricatore, come quello
mafioso, laddove esiste un sistema di potere che intreccia politica,
crimine, economia, mezzi di comunicazione, fare del buon giornalismo
diventa per forza di cose una missione civile, un impegno etico, una
battaglia di denuncia.
Il libro è scritto benissimo e ci racconta, con il piglio preciso e
oggettivo del cronista di razza, la storia di un omicidio di alta
mafia in una città che diceva “qui la mafia non esiste” e quella della
presa di coscienza di una piccola “minoranza etica” che si raccoglie
attorno alla redazione del giornale che decide di continuare dopo
l’assassinio del Direttore-Fondatore, sfidando il mondo dei
benpensanti per i quali Fava, in fondo, se l’era andata a cercare, e
radicalizzando da quel momento in poi la battaglia del giornale, che
diventa l’anima di una lenta ma inesorabile rivolta antimafia che
negli anni ’90, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, diviene
rivolta civile di tutta l’Italia.
Tuttavia, fosse solo questo, il libro di Roccuzzo si aggiungerebbe
alle tante cronache di quegli anni. La sua particolarità sta nella la
forza che sprigiona dalle sue pagine più intime, dove l’autore si
mette in gioco, raccontando se stesso, i perché di una scelta che
nasce tra i tanti dubbi esistenziali di un ragazzo che passa
dall’adolescenza alla gioventù attraverso una serie di prove
drammatiche, una conoscenza diretta della morte, nella sua esperienza
privata così come in quella pubblica. La morte, che noi meridionali
impariamo a esorcizzare fin da bambini (in Sicilia e in Calabria, nel
giorno dei morti si mangiano biscotti che somigliano alle ossa dei
defunti, e i dolcetti di marzapane che si chiamano “morticelli”) qui
diventa esperienza di vita, un fuoco di dolore che accende il
racconto, trasformandolo da semplice cronaca in romanzo di formazione.
La morte del padre tanto amato, uomo onesto e probo, un galantuomo
meridionale, uno di quegli uomini per cui destra significava ordine,
legalità, giustizia, travolto da un gigantesco errore giudiziario che
lo trasforma da vittima in imputato e che gli costa il carcere. E’
dopo quell’esperienza che si ammala di tumore e muore. Il pudore nel
raccontare questi fatti privati rende queste pagine ancor più
toccanti, forse le più belle del libro.
Poi, la morte del secondo padre, quel Pippo Fava che lo aveva avviato
al giornalismo e che ora, da morto, richiamava lui e i suoi giovani
compagni d’avventura alla scelta: da che parte stare? Continuare la
sua battaglia o mollare e rintanarsi nei tranquilli rifugi che
famiglie, società di benpensanti, giornali acquiscenti avevano pronti
per tutti loro? Le ragioni di una morte per mano di mafia sono tutte
scritte nella vita della vittima. Quelle di Pippo Fava erano
addirittura stampate nei giornali che aveva diretto, Il Giornale del
Sud, prima, I Siciliani, poi. Una battaglia tenace e solitaria per
dimostrare che Catania non era più città “babba”, cioè senza mafia,
che era stata contaminata. I Siciliani erano stati gli unici, a
Catania, a prendere sul serio la denuncia del generale Carlo Alberto
Dalla Chiesa, concessa a Giorgio Bocca poco prima di essere
assassinato. Denunciavano quel torbido accordo tra la mafia di Palermo
e quella di Catania che aveva consentito ai padroni dell’economia
catanese, i famosi “Cavalieri del Lavoro”, di partecipare alla grande
torta degli appalti palermitani.
I ragazzi dei Siciliani scelsero di proseguire la battaglia di Pippo.
E hanno vinto, anche quando hanno apparentemente perso. Anche quando
hanno dovuto abbandonare la loro città e il loro giornale è stato
costretto a chiudere. Dice la parabola evangelica . “Se il chicco di
frumento muore, solo allora darà gran frutto”. Che il loro giornale
abbia dovuto chiudere, non racconta il loro fallimento, bensì quello
di una società civile, intellettuale, politica, che non ha avuto il
coraggio, a Catania, come nel resto del Sud, di sfidare il rischio di
essere considerati pazzi, minoritari, estremisti. Il risultato è sotto
gli occhi di tutti: classi dirigenti, di destra e di sinistra,
travolte dall’affarismo, dal trasversalismo, dall’indifferenza morale.
La rivolta civile che oggi sentiamo serpeggiare, anche nel voto delle
recenti elezioni amministrative, non sarebbe stata possibile senza la
solitaria battaglia di Antonio e di quei ragazzi di Catania
magistralmente raccontati in questo bellissimo libro del quale
consigliamo la lettura a tutti coloro, soprattutto ai giovani, che
hanno ancora il coraggio di indignarsi.
Quei giovani cui Roberto Morrione ha dedicato, come maestro esemplare,
gli ultimi anni della sua troppo breve vita.
motivo per indignarvi. E’ fondamentale. Quando qualcosa ci indigna
come a me ha indignato il nazismo, allora diventiamo militanti, forti
e impegnati”.
Stavo trascrivendo le succitate parole del grande vecchio francese
Stéphane Hessel, autore di quell’Indignatevi! che ha scosso la Francia
e sollevato addirittura un movimento, “Gli Indignados”, in Spagna, che
mi servivano per la recensione del libro di Antonio Roccuzzo “Mentre
l’orchestrina suonava Gelosia”, quando ho appreso la notizia della
scomparsa del carissimo Roberto Morrione. Ho pensato allora che invece
di un necrologio o di un semplice ricordo, fosse più giusto, almeno
per me, ricordare Roberto come uno dei più limpidi maestri di quel
giornalismo civile e appassionato, di quei movimenti antimafia, cui il
libro di Roccuzzo è dedicato. Allora ho cercato le parole che avrebbe
cercato Roberto, ho provato a pensare come avrebbe pensato lui.
Soprattutto, mi sono detto che la vita di Roberto tutta intera, il suo
lavoro, il suo impegno sindacale, quello, fino all’ultimo respiro, nel
movimento antimafia, sono il più limpido appello all’indignazione come
molla dell’impegno civile che si possa trovare.
Il libro di Roccuzzo, edito da Mondadori, a metà tra l’autobiografia e
la cronaca, è la storia della ribellione di un giovane catanese,
rampollo di una famiglia della buona borghesia cittadina, il papà
notaio, la mamma insegnante, che a un certo punto della sua vita,
mosso da null’altro che dalla precoce passione per il giornalismo,
incontra sulla sua strada un giornalista, intellettuale e scrittore
“irregolare”, Giuseppe “Pippo” Fava, fondatore della rivista I
Siciliani, assassinato dalla mafia nella vigilia dell’Epifania del
1984, mentre attendeva la nipotina all’uscita del teatro comunale dove
recitava in una commedia di Pirandello.
La storia di questa ribellione, che diventa collettiva proprio
perché nasce dal rifiuto individuale di quella ingiustizia, è la
dimostrazione che neppure un buon giornalismo è possibile se non
scatta la molla dell’indignazione. Proprio la storia raccontata da
Antonio, quello di una generazione di giovani cronisti raccolti
attorno a un personaggio carismatico e anomalo come Pippo Fava,
dimostra che, laddove esiste un potere prevaricatore, come quello
mafioso, laddove esiste un sistema di potere che intreccia politica,
crimine, economia, mezzi di comunicazione, fare del buon giornalismo
diventa per forza di cose una missione civile, un impegno etico, una
battaglia di denuncia.
Il libro è scritto benissimo e ci racconta, con il piglio preciso e
oggettivo del cronista di razza, la storia di un omicidio di alta
mafia in una città che diceva “qui la mafia non esiste” e quella della
presa di coscienza di una piccola “minoranza etica” che si raccoglie
attorno alla redazione del giornale che decide di continuare dopo
l’assassinio del Direttore-Fondatore, sfidando il mondo dei
benpensanti per i quali Fava, in fondo, se l’era andata a cercare, e
radicalizzando da quel momento in poi la battaglia del giornale, che
diventa l’anima di una lenta ma inesorabile rivolta antimafia che
negli anni ’90, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, diviene
rivolta civile di tutta l’Italia.
Tuttavia, fosse solo questo, il libro di Roccuzzo si aggiungerebbe
alle tante cronache di quegli anni. La sua particolarità sta nella la
forza che sprigiona dalle sue pagine più intime, dove l’autore si
mette in gioco, raccontando se stesso, i perché di una scelta che
nasce tra i tanti dubbi esistenziali di un ragazzo che passa
dall’adolescenza alla gioventù attraverso una serie di prove
drammatiche, una conoscenza diretta della morte, nella sua esperienza
privata così come in quella pubblica. La morte, che noi meridionali
impariamo a esorcizzare fin da bambini (in Sicilia e in Calabria, nel
giorno dei morti si mangiano biscotti che somigliano alle ossa dei
defunti, e i dolcetti di marzapane che si chiamano “morticelli”) qui
diventa esperienza di vita, un fuoco di dolore che accende il
racconto, trasformandolo da semplice cronaca in romanzo di formazione.
La morte del padre tanto amato, uomo onesto e probo, un galantuomo
meridionale, uno di quegli uomini per cui destra significava ordine,
legalità, giustizia, travolto da un gigantesco errore giudiziario che
lo trasforma da vittima in imputato e che gli costa il carcere. E’
dopo quell’esperienza che si ammala di tumore e muore. Il pudore nel
raccontare questi fatti privati rende queste pagine ancor più
toccanti, forse le più belle del libro.
Poi, la morte del secondo padre, quel Pippo Fava che lo aveva avviato
al giornalismo e che ora, da morto, richiamava lui e i suoi giovani
compagni d’avventura alla scelta: da che parte stare? Continuare la
sua battaglia o mollare e rintanarsi nei tranquilli rifugi che
famiglie, società di benpensanti, giornali acquiscenti avevano pronti
per tutti loro? Le ragioni di una morte per mano di mafia sono tutte
scritte nella vita della vittima. Quelle di Pippo Fava erano
addirittura stampate nei giornali che aveva diretto, Il Giornale del
Sud, prima, I Siciliani, poi. Una battaglia tenace e solitaria per
dimostrare che Catania non era più città “babba”, cioè senza mafia,
che era stata contaminata. I Siciliani erano stati gli unici, a
Catania, a prendere sul serio la denuncia del generale Carlo Alberto
Dalla Chiesa, concessa a Giorgio Bocca poco prima di essere
assassinato. Denunciavano quel torbido accordo tra la mafia di Palermo
e quella di Catania che aveva consentito ai padroni dell’economia
catanese, i famosi “Cavalieri del Lavoro”, di partecipare alla grande
torta degli appalti palermitani.
I ragazzi dei Siciliani scelsero di proseguire la battaglia di Pippo.
E hanno vinto, anche quando hanno apparentemente perso. Anche quando
hanno dovuto abbandonare la loro città e il loro giornale è stato
costretto a chiudere. Dice la parabola evangelica . “Se il chicco di
frumento muore, solo allora darà gran frutto”. Che il loro giornale
abbia dovuto chiudere, non racconta il loro fallimento, bensì quello
di una società civile, intellettuale, politica, che non ha avuto il
coraggio, a Catania, come nel resto del Sud, di sfidare il rischio di
essere considerati pazzi, minoritari, estremisti. Il risultato è sotto
gli occhi di tutti: classi dirigenti, di destra e di sinistra,
travolte dall’affarismo, dal trasversalismo, dall’indifferenza morale.
La rivolta civile che oggi sentiamo serpeggiare, anche nel voto delle
recenti elezioni amministrative, non sarebbe stata possibile senza la
solitaria battaglia di Antonio e di quei ragazzi di Catania
magistralmente raccontati in questo bellissimo libro del quale
consigliamo la lettura a tutti coloro, soprattutto ai giovani, che
hanno ancora il coraggio di indignarsi.
Quei giovani cui Roberto Morrione ha dedicato, come maestro esemplare,
gli ultimi anni della sua troppo breve vita.
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