Articolo 21 - Editoriali
A 30 anni dalla tragedia di Vermicino il giornalismo televisivo italiano non ha ancora capito la lezione
di Lorenzo Coletta
Quella piccola macchia di campagna romana vicino ai Castelli Romani era una delle poche ad essersi salvata dall'ultima grande onda di espansione urbanistica della capitale. In mezzo a quello spruzzo di verde tra i palazzoni c'era un buco, un piccolo pozzo artesiano nascosto, che il piccolo Alfredino Rampi non riuscì a vedere in tempo e che insieme a lui, la sera del 10 giugno 1981, fece sprofondare l'Italia intera in un'angoscia e in uno strazio collettivi mai provati fino a quel momento.
Per tre giorni la gente rimase incollata alla televisione, assistendo all'evolversi di una tragedia che, in quelle ore, prima della fine, sembrava soltanto una brutta avventura destinata a concludersi con il salvataggio del bimbo. Fu la speranza, infatti, a bloccare l'Italia davanti al piccolo schermo.
Il giornalismo italiano, parallelamente, scoprì in quei tre giorni quanto potesse essere “proficuo” , dal punto di vista mediatico, mostrare in presa diretta il dolore e la disperazione. Da allora si è definita la tragedia di Vermicino come la nascita della “televisione del dolore”: ne sono stati scritti libri autorevoli, saggi, tesi di laurea.
In realtà questo è vero soltanto in parte. Con la morte in diretta di Alfredo Rampi i media si sono resi consapevoli dell'immenso potere di questa attrazione verso la sofferenza. Come scrive Massimo Gamba nel suo libro “Vermicino –L’Italia nel pozzo”, «E' come se la diretta di Vermicino rappresentasse l’obiettivo emotivo a cui tutti gli autori televisivi idealmente tendono, sapendo però che non possono mai raggiungerlo.» L'attrazione verso ciò che è drammatico è qualcosa che fa parte delle persone, la concorrenza tra i vari organi dell’informazione ha fatto il resto; ha reso e rende sempre più appetibile lo spettacolo del dolore. Ciò che vediamo oggi è una spettacolarizzazione dell’informazione, una fiction mediata dalla mano sapiente dei giornalisti, ma proprio perché tutto questo è incanalato in una sorta di show televisivo ricostruito, non ha e non potrà mai avere l’impatto duro e terribile delle immagini di Vermicino, proprio perchè quella era la verità, era cronaca diretta. Il giornalista oggi tende a vestire i panni anche del “terapeuta” dello spettatore, dando una direzione per interpretare tutto. Questo è avvenuto negli ultimi più noti casi di cronaca criminale come Avetrana e Melania Rea, ma anche precedentemente con Garlasco e Erba. L'evoluta “TV del dolore” ed il suo giornalismo credono di aiutare il pubblico a gestire drammi come se fossero personali, riuscendo però ad ottenere un prodotto sterile, ripetitivo, morboso e anche piuttosto noioso.
Per tre giorni la gente rimase incollata alla televisione, assistendo all'evolversi di una tragedia che, in quelle ore, prima della fine, sembrava soltanto una brutta avventura destinata a concludersi con il salvataggio del bimbo. Fu la speranza, infatti, a bloccare l'Italia davanti al piccolo schermo.
Il giornalismo italiano, parallelamente, scoprì in quei tre giorni quanto potesse essere “proficuo” , dal punto di vista mediatico, mostrare in presa diretta il dolore e la disperazione. Da allora si è definita la tragedia di Vermicino come la nascita della “televisione del dolore”: ne sono stati scritti libri autorevoli, saggi, tesi di laurea.
In realtà questo è vero soltanto in parte. Con la morte in diretta di Alfredo Rampi i media si sono resi consapevoli dell'immenso potere di questa attrazione verso la sofferenza. Come scrive Massimo Gamba nel suo libro “Vermicino –L’Italia nel pozzo”, «E' come se la diretta di Vermicino rappresentasse l’obiettivo emotivo a cui tutti gli autori televisivi idealmente tendono, sapendo però che non possono mai raggiungerlo.» L'attrazione verso ciò che è drammatico è qualcosa che fa parte delle persone, la concorrenza tra i vari organi dell’informazione ha fatto il resto; ha reso e rende sempre più appetibile lo spettacolo del dolore. Ciò che vediamo oggi è una spettacolarizzazione dell’informazione, una fiction mediata dalla mano sapiente dei giornalisti, ma proprio perché tutto questo è incanalato in una sorta di show televisivo ricostruito, non ha e non potrà mai avere l’impatto duro e terribile delle immagini di Vermicino, proprio perchè quella era la verità, era cronaca diretta. Il giornalista oggi tende a vestire i panni anche del “terapeuta” dello spettatore, dando una direzione per interpretare tutto. Questo è avvenuto negli ultimi più noti casi di cronaca criminale come Avetrana e Melania Rea, ma anche precedentemente con Garlasco e Erba. L'evoluta “TV del dolore” ed il suo giornalismo credono di aiutare il pubblico a gestire drammi come se fossero personali, riuscendo però ad ottenere un prodotto sterile, ripetitivo, morboso e anche piuttosto noioso.
Letto 4153 volte
Notizie Correlate
Audio/Video Correlati
In archivio
Twitter ergo sum
Articolo 18. Lo âsmemoratoâ Scalfari e il calo di consensi per Monti.
Equo compenso: via libera dalla Camera
Fenomeni, governo tecnico
LibertĂ di informazione dentro i Cie, ancora troppi ostacoli
Occupy Rai
Rispetti i lavoratori? Ti meriti vantaggi
Un fiore per Younas
Estendere lâarticolo 18? La veritĂ Ăš unâaltra, lo si vuole smantellare
La strage di Tolosa e lâimpossibile oblio
Dalla rete di Articolo 21