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Articolo 21 - Editoriali
Cos’è la Rai? Bene collettivo, o di pochi?
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di Ottavio Olita

Ma la Rai è davvero un bene comune, che serve al Paese? Nei giorni dell’uscita di Santoro dall’azienda e quando non c’era alcuna certezza sul futuro dei programmi di Fazio, della Gabanelli, della Dandini, di Floris, il dubbio si è fatto strada anche tra i dipendenti, soprattutto in quelli più determinati a sostenerne la funzione di servizio pubblico. Sono addirittura circolate voci di disdetta del canone, il massimo dell’autoflagellazione, dell’amarezza, del disincanto.
Si può restare appesi sempre e comunque alle sorti della situazione politica del momento, all’esito di questa o quella consultazione elettorale? Qualunque serio lavoratore può rendersi conto, senza tante spiegazioni, delle obiettive condizioni di incertezza e difficoltà di ogni dipendente che lavora in questa azienda, non perché è un posto simile a tanti altri, ma perché ad essa attribuisce un valore aggiunto di bene comune. E’ un po’ la condizione che hanno vissuto e continuano a vivere – ha scritto bene Gilberto Squizzato su questo sito – gli operai, gli impiegati, i tecnici della Fiat e di tante altre imprese per le quali si parla di ‘delocalizzazione’.
Se la Rai è sentita, considerata, vissuta come un bene comune, è giusto che della sua sorte si occupino solo i sindacati dei dipendenti? oppure bisognerebbe che a suo sostegno, per ribadirne la ‘mission’ insostituibile che dovrebbe svolgere nel panorama dell’informazione, della comunicazione, dell’intrattenimento, della cultura italiano si muovessero i cittadini, le associazioni, i movimenti per rivendicarne una funzione che è stata espropriata dalla spaventosa ingerenza prima dei partiti, poi dagli interessi personali e di gruppo dell’unico vero monopolista del settore, che è anche presidente del consiglio dei ministri? Potrà sembrare esagerato, forse azzardato il paragone che sto per fare, ed io stesso lo propongo con ritegno, visto che faccio il giornalista in Rai da 24 anni ed ancor oggi sono un dirigente Usigrai, ma per l’acqua bene comune da non privatizzare non si sono pronunciati - con le trionfali affluenze alle urne il 12 e 13 giugno - solo i lavoratori delle aziende che si occupano di questa risorsa fondamentale; così come è accaduto per le fonti energetiche o per la legge uguale per tutti.
Alla vigilia dell’importante assemblea che il segretario del sindacato dei giornalisti Rai, Carlo Verna, ha indetto per la sera del 21 giugno al teatro Piccolo Eliseo di Roma e’ dunque fondamentale comprendere qual è la condizione nella quale è costretta a battersi l’Usigrai, al pari degli altri sindacati aziendali: da un lato la strenua difesa dei posti di lavoro, delle competenze interne, delle legittime aspirazioni di carriera; dall’altro la battaglia per tutelare la specificità di un’azienda perennemente al centro di attacchi o di guerre di potere.
Anni fa, direttore generale Pierluigi Celli, s’era aperto uno spiraglio, una speranza, in quanti credevano che merito e competenze potessero essere gli unici criteri aziendali nell’assegnazione di riconoscimenti e nomine. Ognuno di noi venne invitato a consegnare il proprio curriculum professionale e di studio. L’attesa di scelte conseguenti durò mesi, poi la disillusione fu massima, quando si capì che nulla era cambiato. Soliti giri di nomine, soliti scavalcamenti incomprensibili e immotivati professionalmente. Tanti restarono al palo. La proposta Curzi rilanciata da Santoro e riproposta qui da Squizzato sulle autocandidature è affascinante, ma non tiene conto di tutto quello che è avvenuto in decenni di diritti calpestati, di carriere spezzate, di scelte fatte in nome dell’appartenenza e, soprattutto, della fedeltà a quella appartenenza. Ecco perché è così difficile fare sindacato. Perché bisogna muoversi attraverso tante stratificazioni. Certo bisogna fissare un punto dal quale ripartire, ma non ci si può dimenticare di chi è rimasto schiacciato.
Perché, allora, diventa fondamentale la battaglia perché i partiti si ritirino una volta per tutte dall’azienda? perché è prioritario avviare una seria riforma della governance? Perché la Rai sia una volta per tutte dei cittadini, perché davvero diventi un bene comune, perché  il merito sia merito e la raccomandazione sia solo una prassi da dismettere. Proprio come i tanti sì e i tanti no dichiarati dai cittadini italiani del 12 e 13 giugno.
E come sindacato dei giornalisti Rai abbiamo l’assoluta certezza di non avere l’esclusiva di quest’idea, condivisa da tanti dirigenti, impiegati, tecnici. Perché allora i movimenti, i gruppi, le associazioni non riuniscono intorno ad un tavolo – speriamo molto affollato – tutti quei soggetti sociali, economici, culturali, che credono nel futuro della Rai bene comune? Sarebbe un primo gesto di affermazione dei propri diritti contro i poteri che continuano a dominare in Rai, che impongono all’azienda lacci e lacciuoli, che mettono in discussione prodotti televisivi di grande valore come “Annozero” o “Vieni via con me”, che preferiscono vederla omologata in basso, molto in basso. E sarebbe un formidabile aiuto ai sindacati aziendali per troppo tempo abbandonati ad essere i soli difensori dei valori profondi del servizio pubblico.

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