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Articolo 21 - Editoriali
Perchè non potremmo dire di aver capito cosa accade realmente in Siria?
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di Riccardo Cristiano

Conosco da molti anni Flavio Lotti, e da molti anni lo stimo. Proprio per questo, per la profonda condivisione del suo impegno per la pace, mi permetto di scrivere questa lettera. Caro Flavio, la manifestazione per il popolo siriano è giustissima e necessaria, ma perché non potremmo dire di aver capito cosa accade realmente in Siria?  Uno potrebbe dire, semplicemente, che quello che succede oggi è semplicemente quello che succede da 49 anni, in Siria. Da quando sono andati al potere i fascisti del Partito Baath. Ma guardiamolo da vicino quello che è successo.

Quel 15 marzo dello scorso anno, quando per la prima volta ebbero luogo i primi piccoli cortei di protesta, come il 16 marzo, quando 150 coraggiosissimi attivisti per i diritti umani osarono riunirsi davanti alla sede del temutissimo Ministero degli Interni, a Damasco, pochi pensarono che per la repubblica dinastica creata da Hafez al-Assad potesse accadere qualcosa di simile a quel che era capitato poche settimane prima ai regimi tunisino ed egiziano. Le cose si aggravarono poco dopo, quando a Daraa, nel sud del Paese, furono tratti in arresto un gruppo di bambini che a scuola, all'ora della ricreazione, osarono scrivere lo slogan che avevano sentito in televisione, scandito dai manifestanti tunisini ed egiziani: "il popolo vuole la caduta del regime". Non li arrestarono subito. Li andarono a prelevare notte tempo casa per casa, e li condussero nella caserma della sicurezza dello stato. Quando i genitori riuscirono a liberarli scoprirono che i loro figli, bambini di una decina d' anni ciascuno, erano stati orribilmente seviziati; gli avevano strappato tutte le unghie. Quell'episodio ha segnato la fine del carattere locale della rivolta di Daraa, la trasformazione dell'insurrezione di una piccola città del sud della Siria in una insurrezione nazionale. Il governo avrebbe potuto ancora fermare la rivolta, punendo severamente i responsabili di Daraa.

Ma la rimozione del capo dei servizi di sicurezza di Daraa, Atef Najib, non ebbe conseguenze. Né lui né nessun altro fu incriminato o condannato, e non pochi in Siria ritengono che questo fu determinato dal fatto che il signor Najib sia un parente del presidente Bashar al-Assad. E proprio lui, il presidente, alcuni mesi dopo quei tragici fatti spiegò a una delegazione di cittadini di Daraa che siccome non c'era nessuna accusa a carico di Najib il massimo che si poteva ipotizzare contro di lui era un provvisorio divieto di espatrio. Fu così, scegliendo di coprire Atef Najib, che il regime scelse la via del suicidio?

I passi successivi sono stati tantissimi e forse contraddittori, ma subito segnati dai cannoneggiamenti medievali di città insorte e ridotte per rappresaglia senza servizi, luce né acqua. E in Aprile, durante l'assalto contro la città costiera di Latakia, il regime rifornì di armi leggere la sua base tribale, gli alawiti (comunità montanara che in termini religiosi appartiene alla galassia sciita), affinché attaccassero altre comunità non alawite.
Creare tensione tra le diverse comunità religiose del Paese era fondamentale nella strategia del regime, che per sopravvivere scelse subito un messaggio chiaro: "questo regime si poggia sulla minoranza alawita e per questo può garantire le altre minoranze religiose, in particolare i cristiani e i drusi, mentre se prevalessero i sunniti, maggioranza nel Paese, si avrebbe un governo guidato dai Fratelli Musulmani che perseguiterebbe le altre minoranze." La tensione a sfondo religioso andava dunque alimentata da subito. E infatti nei primi mesi dell'insurrezione siriana si sono registrati molti casi di provocazioni armate alawite nelle aree sunnite.
Nel frattempo Bashar aveva giocato le sue carte anche sul piano politico.

Poco dopo l'inizio delle proteste, il 24 marzo, la consigliera del presidente, signora Buthaina Shaaban, mentre da un canto diede voce a quello che sarebbe diventato lo slogan del regime, "siamo davanti ad una cospirazione straniera", dall'altro parlò anche di iniziative riformiste da parte di Bashar, per rispondere alle "legittime richieste del popolo".
Così annunciò un comitato per la lotta alla corruzione, la revisione delle legge d'emergenza, una nuova legislazione sui partiti e sulla stampa, la fine degli arresti arbitrari (mai negati dal regime nel suo lunghissimo esercizio del potere).
A conferma di queste intenzioni il presidente dimise il governo, il 29 di quello stesso mese. Ma già il giorno seguente fu traumatico. Nel suo attesissimo discorso il presidente Assad si concentrò quasi esclusivamente sul complotto internazionale contro la Siria, definendo gli insorti "terroristi". Di solito in discorsi di chiusura si concede qualcosa solo sulla lotta alla corruzione; ma in quel discorso non ci fu neanche questo, si limitò a dire che il problema era già stato affrontato. Il fratello del presidente, il capo della guardia repubblicana, Maher al-Assad, il fautore della repressione senza riforme, aveva vinto lo scontro interno all'inner circle presidenziale? Se uno scontro del genere c'è mai stato, forse non finì così presto, visto che ad aprile il regime tornò a parlare di concessioni: una ridicola, la sostituzione delle leggi emergenziali con una "moderna" legge anti-terrorismo, una drammatica, il rilascio dei curdi arrestati nel 2010 per aver festeggiato il loro capodanno, proibito in un Paese dove i curdi non hanno diritti.

Arrivò così il secondo discorso pubblico di Bashar, quello del 16 aprile, che riaprì le porte del negoziato sulle "legittime richieste del popolo", distinto dai terroristi ovviamente. Si tornò a parlare di abolizione della legge marziale e altre riforme. Ma intanto il tempo era passato, e le voci di quanti sostenevano che si trattasse di parole a cui non sarebbero seguiti fatti aumentarono. Non a caso la repressione, di lì a breve, riprese, ancor più violenta, ma incapace però di porre termine alla protesta, che proprio in questa fase cominciò a pensare alle armi.
Giunse così la terza fase, la riproposizione di riforme, sul finire di maggio.
Si riprese a parlare di riforme, e di un terzo discorso di Assad su un imminente "dialogo nazionale". Ma chi era disposto a crederci? Pochi. E dopo che il governo abbozzò qualche riforma il presidente siriano smentì i pochi ottimisti con il suo terzo discorso, il 20 giugno. Bashar definì gli insorti germi, qualcosa di simile ai "ratti" evocati da Gheddafi.

Guarda caso fu proprio in quei giorni che il regime cancellò qualsiasi ipotesi di "pulizia interna". Il più discusso miliardario siriano, Rami Makluf, la testa che doveva rotolare per prima per apparire credibile, rilasciò un'intervista politica al New York Times, dicendo che "la stabilità di Israele passa per la stabilità della Siria". Rami Makluf, guarda caso, è un parente del presidente Bashar, come il responsabile della sicurezza di Daraa.
E questo spiega perché sia inutile domandarsi se l'andirivieni di aperture e chiusure da parte del regime indichi che in quei mesi decisivi ci spossa essere stato uno scontro tra falchi e colombe. Il fatto è che quel regime è irriformabile, perché costruito su un intreccio di interessi illegittimi che se scalfiti farebbero crollare tutto il sistema.
 
Questa non riformabilità del sistema spiega tanto, forse più di quanto noi stessi immaginiamo. Secondo un rapporto pubblicato pochi giorni fa da Save the Children, dall'inizio dell'insurrezione siriana sono stati uccisi 348 bambini, una media di uno al giorno. Non è stato il prodotto di un caso, di una barbarie occasionale. E' stato il prodotto di un calcolo: quale sistema intimidatorio nei confronti dei genitori è più efficace del mostrargli il sangue dei figli dei vicini di casa?

L'intimidazione, la tortura, le sparizioni, sono stati, con l'ausilio dei pasdaran iraniani e degli hezbollah libanesi, gli ingredienti della linea messa in pratica dai vertici militari.
Siamo arrivati così, caro Flavio, all’assedio di Homs. L’amico e collega Stefano Marcelli con la genialità di chi vede le cose evidenti, quelle che sono sotto gli occhi di tutti, ha visto che Homs è proprio come Sarajevo, probabilmente perché il fascismo baathista è uguale a quello dei nazionalisti di Milosevic. Altri, leggendo il sito dei servizi israeliani, Debka file, hanno preferito vedere l’invisibile. E cioè non le bombe che cadono sulla cittadinanza  rintanata da giorni dentro casa, ma gli invisibili istruttori britannici e qatarini che hanno portato addirittura i mortai ai ribelli. Ma non può essere la disinformazione ( forse interessata)  a  impedirci di vedere l’evidente.    
I fascisti pensano e operano proprio così, come Milosevic e come Assad. Chi lo ha spiegato meglio di tutti che si tratta di fascisti è stato il leader del partito baathista iracheno Saddam Hussein: molti anni fa, rispondendo alle richieste di autonomia dei curdi iracheni, disse: " arabi, curdi... siamo tutti arabi!"
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