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Appello contro la pena di morte per sei bambini mentre in Darfur la guerra riprende con violenza
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di Antonella Napoli

Appello contro la pena di morte per sei bambini mentre in Darfur la guerra riprende con violenza

Sono passati pochi mesi da quando denunciammo il tentativo maldestro di voler ridimensionare il conflitto in Darfur definendolo ‘una guerra finita, ridotta a un profilo di bassa intensità’. Oggi la notizia di un nuovo scontro, solo l’ultimo di una lunga serie, nel quale hanno perso la vita tre caschi blu ruandesi e altri cinque sono rimasti feriti. Sale così a venti il numero dei peacekeepers uccisi in Darfur dall'inizio del dispiegamento nel gennaio 2008 di Unamid, che conta attualmente 18mila tra soldati e poliziotti sul campo a fronte dei 26mila previsti.
Ma l’orrore non impregna solo il ‘cuore’ della regione orientale del Paese. Nei giorni scorsi, nella capitale Khartoum, sei minorenni – di età compresa tra gli 11 e i 16 anni - sono stati condannati a morte  per aver partecipato nel 2008  all’assalto dei ribelli del Jem contro l’esercito del Sudan. 
Durissime le proteste delle Nazioni Unite che attraverso il rappresentante del Segretario Generale per i bambini nei conflitti armati, Radhika Coomaraswamy, ha espresso sconcerto per questa assurda decisione del tribunale sudanese.
Al Palazzo di vetro sono, nel frattempo, alle prese con una imbarazzante retromarcia. I vertici Onu. corsi ai ripari per rimediare al clamoroso autogol delle dichiarazioni dell’ex comandante di Unamid, Rodolphe Adada (quello della ‘guerra finita’), hanno nominato un nuovo capo missione: Ibrahim Gambari, ex ministro degli esteri nigeriano e già inviato speciale dell’Onu in Birmania.
Tutto questo avviene alla vigilia delle elezioni generali in Sudan, verso cui si sperava di avviarsi con una consapevolezza diversa: la disponibilità del governo sudanese a confrontarsi con tutti i partiti affinché si svolgessero le prime elezioni ‘libere’ dopo ventiquattro anni. Ma questa speranza si è presto infranta.
Nelle scorse settimane è stato infatti deciso l’ennesimo slittamento della data del voto. E la tensione nel Paese è sempre più alta. A causa di scontri avvenuti in due villaggi Dinka nella zona di Bulok, contea di Awerial, sono morte una cinquantina di persone e almeno venti sono rimaste ferite. Ad attaccarli un gruppo armato dell'etnia Mundari che si contrappone ai dinka per il controllo del territorio. Solo poche ore prima era scampato a un attentato il ministro dell'Agricoltura, Samson Kwaje, che ha riportato ferite gravi mentre sei uomini della sua scorta sono stati trucidati. 
L’escalation di violenza sta compromettendo il processo elettorale avviato con la costituzione di un’apposita commissione voluta dai vertici del regime.
I rappresentanti delle diverse forze, durante il primo incontro, avevano sollevato rilievi e chiesto chiarimenti per accertare il corretto andamento dei preparativi in vista dell’Election day (si vota per i governi nazionale, regionali e locali), in particolare delle procedure per l’istituzione del registro elettorale che hanno preso il via all'inizio di novembre. Per questo la data delle elezioni era slittata dal 5 all'11 aprile 2010.
Intanto l'Onu, già critico nei confronti del Sudan per l’ostruzionismo interno, lo accusa di continuare a boicottare la missione di pace in Darfur.
Il governo sudanese, nel solo 2009, ha bloccato le operazioni delle pattuglie di peacekeeping nella regione occidentale del Paese in ben 42 occasioni.  
Lo ha riferito il Segretario Generale Ban ki Moon relazionando alle Nazioni Unite sullo stato della forza congiunta ONU-Unione Africana, dispiegata in Darfur dal 2007 attraverso la risoluzione 1769 approvata all'unanimità dal Consiglio di Sicurezza.
Il contingente, a causa dei rallentamenti e della scarsa collaborazione da parte di Paesi che avrebbero dovuto fornire un contributo alla missione, non è mai stato pienamente schierato. Ban ki Moon ha sottolineato la grave responsabilità del governo sudanese nel perseguire l'ostruzionismo attuato per ostacolare lo svolgimento del compito di controllo e di sicurezza dell'Unamid con continue intimidazioni, come sorvoli di elicotteri militari, spari e  rallentamenti nelle procedure burocratiche (basti pensare alla mancata partenza della delegazione italiana che doveva supportare lo schieramento delle truppe perché non sono mai stati forniti i viti necessari).
Gli episodi, documentati, sono numerosi. Nel frattempo le condizioni di sicurezza dei peacekeepers, nel mezzo di sempre più frequenti scontri tra etnie in Darfur e la ripresa delle ostilità tra fazioni politiche contrapposte con l'approssimarsi delle elezioni, peggiorano di giorno in giorno. L'Onu ritiene fondato il timore di una nuova e più cruenta guerra nella regione. E gli episodi delle ultime ore lo confermano.
Ban Ki-moon ha parlato chiaramente di 'aumento del rischio di un nuovo conflitto' e ha 'esortato' il Sudan a dare un freno alle azioni tese a impedire lo svolgimento del mandato di Unamid.
Ma la risposta del Sudan, attraverso l'ambasciatore alle Nazioni Unite Abdalmahmoud Abdalhaleem, non è stata delle più cordiali e disponibili. L'esponente del regime  ha criticato la relazione e ha ribadito che 'la guerra in Darfur è finita' e che 'in vista della pace, le Nazioni Unite dovrebbero, in coordinamento con l'Unione africana e il governo sudanese, pensare a un exit strategy dal Darfur".
Se i presupposti sono questi, il clima politico – diplomatico tra Khartoum e comunità internazionale non potrà che arroventarsi. Soprattutto se l’appello a sospendere la pena di morte per i sei minori avanzato dalle organizzazioni umanitarie impegnate nella difesa dei diritti umani, tra cui Italians for Darfur e Articolo 21, non sarà accolto.


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