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Georgofili. Quando Firenze incontrò i Corleonesi
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di Silvia Bartolini*

Georgofili. Quando Firenze incontrò i Corleonesi

Era una bella serata, calda ma non troppo, cena con 2 amici e una passeggiata in centro. Si parlava mentre distrattamente  sbirciavamo le vetrine ancora illuminate di una delle strade più eleganti di Firenze. La prima cosa che sentii fu come se una forza enorme mi comprimesse lo sterno svuotandomi i polmoni  dall’aria che contenevano e meno di un istante dopo ci fu il boato. Una pioggia luminosa ci investì, ci misi qualche secondo a capire che erano i vetri in frantumi  dei palazzi che erano esplosi per l’onda d’urto, come una scema ero rimasta in piedi fino a quando Massimo, uno dei miei amici, mi tirò a terra per una mano.

Quando ci rialzammo avevamo tutti, chi più chi meno, dei piccoli tagli, sulle mani, sui volti, in testa, “Stai bene?”, “Sì tutto ok!”, “Vuoi un fazzolettino?”, “Grazie”. Eravamo come in una bolla, per almeno 2 minuti a nessuno di noi venne in mente di domandarsi cos’era successo, cosa ci aveva vuotato i polmoni, cos’era il boato e cosa aveva mandato in frantumi i vetri delle finestre sopra di noi.

Poi Massimo senza parlare indicò un punto dietro le mie spalle. Si vedeva chiaramente una colonna di fumo che si alzava dai palazzi pochi metri più in la, verso i lungarni stranamente illuminati da un bagliore persistente.

Iniziammo a correre in quella direzione, senza che tra di noi si scambiasse una parola o un segno d’assenso. Solo allora mi resi conto di aver perso una lente a contatto, forse a causa dell’onda d’urto, ma non smisi di correre. Si scivolava sui vetri, e più ci avvicinavamo più l’aria si faceva irrespirabile, impastata di una polvere pesante che bruciava la gola e gli occhi.

Ci vollero solo pochi attimi ad arrivare nella stradina dietro gli Uffizi, non sapevo come si chiamava, ci ero passata mille volte per andare a comprare i jeans usati in un famoso negozio in via Lambertesca, non lo sapevo il nome di quella strada e quella sera non immaginavo che il nome di quella stradina sarebbe diventato il simbolo di una delle grandi vergogne del mio paese.

Quello che ci trovammo davanti agli occhi fu uno scenario da guerra. C’era un palazzo sventrato che riversava parti di se stesso nella piccola via, macerie, fuoco e polvere. C’era chi gridava, chi correva chi tentava di spostare i detriti con le mani. Erano ombre nel buio in cui era piombata la zona. Era difficile anche solo stare in piedi a causa dei detriti. Qualcuno diceva che era una fuga di gas e che sarebbe potuto esplodere ancora, che era pericoloso stare lì.

In lontananza si iniziarono a sentire le sirene, sempre più vicine, Vigili del Fuoco, Polizia, Carabinieri, Ambulanze.

Dopo poco la strada fu illuminata dai fari d’emergenza dei soccorsi e quello che la luce rivelò fu ancora peggio. L’antico palazzo era squarciato, dalla ferita era uscita una montagna di macerie. La polvere continuava a cadere come una nebbia corposa mista a cenere. Dalla costruzione spuntavano travi che rendevano l’edificio simile ad un enorme e sinistro scheletro percorso da fiamme.

Ricordo lo sforzo dei Vigili del Fuoco per domare l’incendio, e i tentativi poco convinti dei Carabinieri di allontanarci, ma c’è una cosa che più delle altre non potrò mai dimenticare e sono le grida di una ragazza estratta dalle macerie. Mentre la caricavano sull’ambulanza lei gridava un nome, un nome di uomo e la disperazione del suo grido fece tacere tutti.

Quando ce ne andammo era notte fonda, alcuni volontari ci avevano disinfettato i tagli e pulito il sangue secco dai volti. La voce che serpeggiava era quella dell’incidente, della fuga di gas, e quando arrivai a casa dovetti svegliare i miei e raccontare loro cosa era successo più per sfogarmi che per altro e mia madre disinfettò nuovamente i tagli, perché “Non si sa mai”.

Da quella notte ad oggi sono passati 18 anni ma già dalla mattina dopo si sapeva che il gas non c’entrava nulla, che non era un incidente che era stata una “bomba”.

Quello che non potevamo immaginare era perché. Perché dalla mafia a Firenze ci sentivamo lontani, perché i Corleonesi a Firenze erano una cosa vista solo nei film di Francis Ford Coppola, e quelli del film poi sono dipinti come “uomini d’onore” che non vanno ad ammazzare normali cittadini, che non uccidono persone innocenti, che non assassinano neonati che dormono nella culla.

E’ che gli uomini d’onore non esistono nella mafia. Sono solo dei vigliacchi. I coraggiosi sono altri, sono i parenti delle vittime che da anni lottano per avere un processo giusto, per conoscere la verità, perché ai magistrati che indagano sia data la possibilità di fare luce sugli esecutori ma ancor più sui mandanti di quelle stragi. Questi sono gli eroi, queste persone hanno onore, gli altri, sia mandanti che esecutori sono solo dei volgari criminali con le mani imbrattate del sangue di innocenti.

Gli eroi sono i parenti delle vittime che hanno guardato negli occhi gli sporchi sicari che hanno imbottito con 300 kili di tritolo il sonno dei loro cari spazzando via per sempre i loro sogni e noi abbiamo il dovere di non lasciarli soli, di fare nostri i loro appelli le loro richieste di verità. Perché se è vero che gli esecutori sono stati assicurati alla Giustizia è vero anche che poco si sa sui mandanti di quella che non può essere definita solo una strage mafiosa.

*www.popoloviola.org


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