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L'inesorabile divorzio tra politica e cultura
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di Nicola Tranfaglia

L'inesorabile divorzio tra politica e cultura

Abbiamo la sfortuna di un ministro che si occupa della pubblica amministrazione e in tre anni è riuscito a procurarsi l’avversione compatta di tutti quelli che lavorano nel settore pubblico ma soprattutto che, nello stesso periodo, non ha compiuto nessuna riforma limitandosi a frasi generali in cui proclama necessità di cambiamento radicale di cui non si è visto finora nessun segno, neppure embrionale.
Ora che la crisi del governo e della maggioranza politica di cui fa parte si è notevolmente aggravata, le sue affermazioni non parlano neppure da lontano di misure concrete che continuano a non essere realizzate ma spaziano su affermazioni che in astratto piacerebbero al ministro.
Così nei giorni scorsi ha sollevato un vecchio problema italiano che rimonta all’Unità: quello dei certificati che lo Stato richiede e ha sempre richiesto ai cittadini nei centocinquant’anni della sua vita. Ma è incorso in una gaffe che mostra ancora una volta la mancanza, da parte sua, di una concezione moderna dello stato italiano. Così ha detto che si possono abolire tutti i certificati incluso quello che si chiede alle imprese e ai cittadini per la lotta alla mafia.
Ha provocato, con questa affermazione, la reazione immediata addirittura del ministro degli Interni leghista Maroni che ha ricordato che dire quel che ha detto il ministro Brunetta nel paese in cui le associazioni mafiose sono nate e in tre regioni controllano addirittura in maniera prevalente l’economia significa parlare di un paese che non ha molti contatti con la realtà.
Questo non significa naturalmente che Brunetta ami la mafia ma soltanto che ha continuato a parlare, come fa da quando è al governo, senza rendersi conto neppure di quel che dice. E questo per un ministro della repubblica sembra una forte contraddizione in termini.
Ma, come ho già scritto più volte di recente, la gravità della crisi e del buio in cui siamo precipitati in Italia è alla base di questo clima e di tante battute che non hanno molto senso.
Come quella intervista, e qui siamo nello schieramento di centro-sinistra (e la cosa mi dispiace ancora di più) che ha dato nei giorni scorsi al “Corriere della Sera” l’onorevole Antonio Di Pietro, leader dell’Italia dei Valori che, dopo aver per quasi vent’anni più volte criticato a fondo e in maniera radicale l’esperienza di governo e di partito di Craxi, ha scoperto improvvisamente che in fondo le idee del leader socialista erano accettabili e che, sul piano politico, il segretario del PSI aveva visto giusto.
Del resto che Di Pietro sia preoccupato di precisare la posizione di un partito che è sempre stato personale e familista e non ha mai potuto elaborare una posizione precisa se si esclude una certa critica intermittente ai suoi alleati di centro-sinistra e in particolare al Partito democratico è una constatazione chiara per tutti quelli che osservano o vivono la politica italiana. Ma che oggi, nell’affanno di concorrere più nettamente ai voti dell’elettorato di centro-sinistra, l’ex poliziotto e poi giudice di Mani Pulite scopra addirittura di essere un liberal-progressista e uno che rivaluta Craxi è davvero sorprendente se ci stupissimo ancora dell’eterno trasformismo che domina la politica italiana. E del divorzio, ormai completo, che si consuma tra la politica e la cultura.

www.nicolatranfaglia.com     


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