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Articolo 21 - ESTERI
Lampi sull'Europa vent'anni dopo
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di Francesco Peloso

Lampi sull'Europa vent'anni dopo

da Il mondo di Annibale
Dal 1989, dai giorni della caduta del Muro di Berlino, sono trascorsi ormai più di vent’anni. Nel 1991, poi, finiva l’Unione sovietica: il colpo di stato fallito, Gorbaciov chiuso con Raissa nella dacia, lontano da Mosca, la ribellione della gente nella capitale, l’indecisione dei golpisti, burocrati di medio rango ormai al tramonto, l’ascesa di Boris Eltisn. E poi quell’ammaina bandiera dal Cremlino che comunque fu un brivido per molti. Proprio nel dicembre del 1991  – dopo il golpe andato a vuoto dell’agosto – si concluse formalmente la storia dell’Unione sovietica. Il mito del riformismo dall’interno del sistema, mostrava la corda, l’apparato del partito, irrecuperabile ai principi di libertà, non raccoglieva la sfida lanciata da Gorbaciov e si chiudeva un’epoca.
 
Di quel periodo ricordo alcune cose; sono immagini, fuggenti e nitide allo stesso tempo, lasciatemi in consegna dalla memoria. Qualche tempo prima Gorbaciov venne a Roma, il suo tentativo di cambiare l’Urss sembrò andare incontro al tentativo dei comunisti italiani di costruire una leggendaria ‘terza via’, il sogno, impossibile nella realtà storica, di un  comunismo che fosse al contempo regime ‘buono’ ad oriente e strumento di democrazia in occidente per evolversi, poi, verso un socialismo nebuloso e fantastico. Tutta la storia del dopoguerra, la divisione del mondo in blocchi, le sfere d’influenza, il dominio di Mosca sull’Europa dell’est, parlavano un altro linguaggio, quello di un impero. Quando ormai alla fine arrivò Gorbaciov, sembrò per un momento che le sue intenzioni s’incrociassero con quelle del “più grande partito comunista d’occidente” come amavamo ripetere con orgoglio e retorica, allora.
 
Una sera il “compagno Gorbaciov” incontrò i militanti del Pci davanti al Colosseo. Ricordo l’abbraccio di tutti a quell’uomo col cappello, la moglie bella e simpatica, la scorta un po’ ‘amerikana’ – novità impensabili prima – che voleva rimettere in vita il sogno; il suo sorriso, la sua faccia aperta travolta dall’entusiasmo della gente, dagli applausi spontanei, dall’idea nostra – ingenua, certo, a posteriori – che finalmente anche “loro”, i sovietici,  avevano capito come bisognava fare. Si aveva una percezione vaga dell’enormità disperante dell’operazione gorbacioviana.
 
Molti di noi, cresciuti “all’opposizione”, nei movimenti giovanili e nella Fgci, simpatizzarono istintivamente, senza pensarci due volte, con la gente di Praga e di Bucarest, con quelli scesi in piazza a Mosca e nelle repubbliche baltiche. L’oppressione è sempre oppressione. Fra l’89 e il 91, nell’immenso corpo sociale del partito comunista, che andava molto al di là dei suoi iscritti,  cominciò una frattura che ha continuato poi a riguardare la sinistra italiana. La grande maggioranza di noi fece allora una scelta: i diritti e la democrazia  non potevano arrivare ‘dopo’ il resto. Già lo sapevamo, ma ora non c’erano più finzioni. Qualche retaggio di questa frattura la si ritrova oggi quando qualcuno, frange minoritarie, ma anche giornali e opinionisti di una sinistra immobile, ritengono ancora  di poter sostenere le dittature mediorientali perché ‘antimperialiste’.
 
Ricordo poi il senso di straniamento quando manifestavano, in quei giorni, sotto l’ambasciata sovietica contro le repressioni. Il titolo dell’Unità: “Il grande sogno è finito” e quel giornale, che ci era caro, diretto all’epoca da Renzo Foa, ora scomparso, che poi finì a fare l’editorialista per il Giornale berlusconiano. Segni dei tempi.
 
Un nuovo passo indietro della memoria. Dopo la strage di piazza Tien An Men messa in atto da un’altra armata rossa, torniamo in tanti sotto un’altra ambasciata, quella cinese stavolta, fa già caldo, è il giungo del 1989, mentre Achille Occhetto, ancora “il segretario del partito”, scandisce che non esiste più un movimento comunista internazionale; presa di distanza definitiva dalle rivoluzioni del ‘900 diventate insopportabili dittature. Mi viene in mente, poi, l’immagine commovente, direi quasi struggente, di quell’Alexander Dubcek che a Praga, caduto il regime, salutava una folla immensa; lui ormai era il passato – e lo sapeva – ma quel “socialismo dal volto umano” era stato un altro tentativo di deviare la macchina della storia dai binari dell’impero.
 
L’Osservatore romano ha ricordato in questi giorni un altro anniversario, quello del colpo di stato in Polonia del 13 dicembre 1981. Trent’anni fa. L’avventura di Solidarnosc  entrava nella sua fase più drammatica, i cantieri di Danzica e l’uomo di marmo, il potere sovietico che parla di “orgia antisocialista in Polonia”. Proprio in quei giorni il “compagno Berlinguer” spiegava: “è finita la spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre”; era un altro modo di esprimersi rispetto ad oggi, il messaggio del segretario generale assomigliava a quello di un Papa, ma certo era chiaro anche per i sordi quello che diceva.
 
Torno all’oggi, alla consapevolezza che non è mai finita. In questo dicembre del 2011 i russi sono tornati in piazza, evidentemente hanno un’antica vocazione invernale. Lo Zar, come lo chiamano i media, traballa, il suo potere assoluto fatto di repressione silenziosa, uccisione di giornalisti, controllo ferreo della Duma e della vita pubblica – non poi così dissimile dagli anni dell’Urss – sembra giunto al suo limite estremo. E fa impressione, certo, rivedere le strade di Mosca piene di manifestanti con un annuncio di proteste e di contestazioni che si prolungherà fino alle elezioni presidenziali della prossima Primavera.
 
Nell’Europa di oggi serpeggia ad oriente il rischio del revanscismo, come nell’Ungheria ultranazionalista e reazionaria di Viktor Orban. Eppure anche a Budapest nei mesi scorsi la gente ha manifestato. Forse il Muro non è caduto invano.
 
Da quei giorni di venti, ventidue anni fa, è passato un tempo che sembra già lunghissimo. Alle nostre spalle la guerra cecena e l’orrore jugoslavo cominciano a impallidire. Oggi Barack Obama chiude definitivamente il capitolo iracheno concludendo il ritiro degli ultimi seimila soldati americani da Baghdad. Il tentativo dell’impero globale gestito dagli uomini forti della destra repubblicana  – petrolio, armi e fondamentalismo religioso – si frantuma  come l’integralismo terroristico di matrice islamica, quello delle torri gemelle, di Madrid di Londra.
 
E se la fine dei blocchi ha suscitato cambiamenti impensabili in America Latina, in Asia e ora nel mondo arabo, l’Europa fa i conti con la sua incompiutezza, con forze politiche, anche a sinistra, incapaci  di ripensarsi negli scenari globali. Finita di fatto l’Internazionale socialista, nessun vero rapporto e collante ha unito i partiti di sinistra europei che hanno invece vissuto di sobbalzi, iniziative personali, leader passeggeri. Oggi l’integrazione – tema chiave del mondo per estendere diritti sociali e libertà civili – è fuori sostanzialmente dai programmi politici della sinistra europea, che tocca questo tema solo in termini retorici. La difesa quasi impossibile degli interessi di classe e nazionali all’interno dei confini nazionali, diventa pura testimonianza, emendamento, lento cedimento di terreno. Eppure l’Europa, costruzione globale ante litteram in un mondo globale, è lì, e oggi ha un disperato, vitale, bisogno di politica comune, di sovranità di spazio civile.


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