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Articolo 21 - Editoriali
Nelle carceri italiane sta accadendo di tutto
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di Valter Vecellio

La procura della Repubblica di Roma apre un’inchiesta per chiarire le cause del suicidio della brigatista Diana Blefari Melazzi, impiccatasi in una cella del carcere romano di Rebibbia. Il signor ministro della Giustizia Angelino Alfano promette “una puntuale e attenta inchiesta amministrativa che affiancherà quella giudiziaria così da fare luce immediatamente sull’accaduto”. Poi, spericolatamente aggiunge che “dalle prime informazioni assunte, la neobrigatista Blefari era in regime di detenzione comune e in una situazione carceraria compatibile con le sue condizioni psicofisiche così come stabilito dall’autorità giudiziaria”.

Già nel 2006 il professor Antonio Coppotelli, consulente della difesa, aveva scritto nero su bianco che Blefari era a rischio suicidio. Il professor Coppotelli disse che la donna era in pericolo di vita, che aveva bisogno di cure urgenti e adeguate, e che il regime carcerario (all’epoca era sottoposta al 41 bis) non faceva altro che aggravare un problema già critico. Gli avvocati Caterina Calia e Valerio Spigarelli fecero presente che Blefari era affetta da uno stato paranoie di genesi psicotica: alternava rari momenti di lucidità ad altri di vero delirio, difficilmente voleva avere rapporti con il mondo esterno, non riceveva neppure gli atti processuali ed evitava di usufruire dei pur ridottissimi spazi di socialità che il regime di carcere duro le concedeva: “Denunciavamo da anni che Diana non stava bene”, dice oggi l’avvocato Calia. “Bene: qualcuno avrà capito che il nostro allarme non è mai stato preso in considerazione”.

Nel novembre del 2007 il garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni aveva lanciato un allarme: “Sono gravissime le condizioni di salute mentale di Diana Blefari Melazzi”, e aveva sottolineato le sue condizioni di salute precarie: “Schizofrenica e già inabile psichicamente, figlia di una madre con la stessa malattia morta suicida, dal momento dell’arresto la donna ha conosciuto un progressivo deterioramento delle sue condizioni”. Marroni definì le sue condizioni “sconcertanti…il suo stato è progressivamente peggiorato in un anno e mezzo dopo l’arresto. Le detenute dell’alta sicurezza ascoltano quotidianamente le sue urla e i suoi lamenti. Per lunghi periodi la donna non mangia e si chiude al mondo, rifiuta i farmaci e trascorre intere giornate a letto, al buio e senza contatti neanche con i familiari e l’avvocato. Inviata due volte all’osservazione psichiatrica di Sollicciano sembra migliorare, ma una volta tornata a Rebibbia le sue condizioni peggiorano di nuovo…”.

Venuto meno il regime del 41 bis, le condizioni di Blefari non sono però migliorate; e siamo all’oggi. Che si possa sostenere, come fa il signor ministro della Giustizia, che le condizioni  psicofisiche della donna fossero compatibili con il regime carcerario, è un mistero che andrebbe chiarito. Ad ogni modo, con buona pace del signor ministro, il fatto innegabile e incontrovertibile, è che Blefari in carcere non ci doveva essere. Senza “se” e senza “ma”.

Eugenio Sarno, segretario generale della UilPa dichiara qualcosa che si può sottoscrivere parola per parola: “Dopo l’ennesimo suicidio di una persona detenuta siamo costretti a registrare la solita sequela di occasionali quanto tardive e ipocrite reazioni di indignazione. Nella certezza che questo interesse avrà ad esaurirsi nel giro di poche ore, il sistema penitenziario sempre più criminogeno e mortifero, tornerà ad essere avviluppato dalle nebbie dell’indifferenza. Ascolto, leggo, tanti commenti su questa triste vicenda. Mi chiedo, però, dov’erano queste persone quando in migliaia abbiamo denunciato lo stato di coma irreversibile del sistema penitenziario manifestando nelle piazze d’Italia e davanti alla Camera?...”.

Sarno poi richiama l’attenzione sulla realtà degli organici della polizia penitenziaria: “A Rebibbia gli organici sono costantemente depauperati di poliziotte, per lo più destinate alle segreterie dei palazzi del potere romano. Eppure nemmeno su questo non sono mancate le manifestazioni di protesta e le pubbliche denunce. Ma come tutto ciò che attiene al mondo penitenziario non si interviene, salvo svegliarsi dal letargo solo di fronte a simili tragedie…Le nostre colleghe sono costrette a lavorare nella sistematica emergenza perché tante poliziotte sono destinate ad incarichi non operativi e non istituzionali, benché tale situazione sia nota ai responsabili amministrativi. E’ evidente che i livelli di sicurezza sono irrimediabilmente compromessi. Tutto ciò si riversa sulle incolpevoli spalle del personale dall’inefficienza del sistema. Basti pensare che per le poliziotte di Rebibbia ferie e riposi sono sempre a rischio. Questa sistematica lesione del diritto però non fa notizia”.

Nelle carceri italiane sta accadendo di tutto: per restare ai dati della cronaca delle ultime ore, la morte di Stefano Cucchi, il suicidio di Diana Blefari, il pestaggio immortalato da un CD a Teramo, agenti feriti, celle date alle fiamme, proteste di detenuti e di agenti…Per restare solo ai dati dei suicidi in carcere siamo arrivati a quota 60: un numero spaventosamente alto, cui bisogna aggiungere un centinaio di altri detenuti deceduti per altre ragioni. “Tecnicamente” possono essere decessi provocati dalle più svariate ragioni, Concretamente possono essere definiti “omicidi”. Quando lo Stato, non importa per quale ragione, decide di privare un cittadino della sua libertà, si fa massimamente garante e responsabile della sua incolumità.Se un cittadino entra vivo in carcere, in un commissariato o in una caserma dei carabinieri, e ne esce morto, la responsabilità è dello Stato.

Il Governo, il ministro della Giustizia, il DAP, si rendono conto di quanto sta accadendo, di quanto è accaduto? Mancano agenti di custodia, mancano educatori e psicologi, assistenti sociali. Il personale penitenziario, tarato sui 40mila detenuti (e sono invece 65mila) è spaventosamente insufficiente. Il governo, il ministro, il DAP, oltre ai periodici annunci di costruzione di nuove carceri, cosa fanno, cosa hanno fatto, cosa intendono fare? A questa domanda si risponde con il silenzio e l’indifferenza. La loro politica è quella non di governare problemi ed emergenze piuttosto ignorare le questioni, nascondere la testa sotto la sabbia. I risultati sono quelli che vediamo.

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