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Articolo 21 - Editoriali
Processo breve, ma ingiusto
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di Ilaria Salvemme*

Il disegno di legge 1880/S c.d. “sul processo breve”, nato all’indomani dell’abrogazione del c.d. lodo Alfano da parte della Corte Costituzionale, ha dato adito a numerose polemiche e querelles che hanno visto il guardasigilli contrapporsi all’Associazione Nazionale Magistrati e al Consiglio Superiore della Magistratura. Dibattito, quello appena descritto, che la stampa ha riportato trascurando di analizzare accuratamente il testo normativo al fine di garantirne una maggiore comprensione. Solo in tal modo, infatti, sarebbe possibile capire se davvero il DDL in oggetto sia una legge ad personam, in grado di favorire pochi cittadini e pregiudicarne molti impegnati a difendere le proprie posizioni giuridiche nelle sedi opportune. Se così fosse violerebbe una delle norme di fondamentale importanza contenute nella Carta Costituzionale, all’art. 24, comma 1: «Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi».

Il DDL N. 1880/S - Il legislatore porta da tre a due anni l’intervallo temporale entro il quale un processo civile o penale deve definirsi, perché la sua durata possa dirsi ragionevole. Per raggiungere tale obiettivo nel processo civile, l’art. 1 del disegno di legge modifica l’art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, c.d. Legge Pinto, sull’equo indennizzo. In ambito penale, invece, l’art. 2 introduce l’art. 346 bis nel codice di procedura, ovvero l’istituto della estinzione del processo per irragionevole durata.


LA LEGGE PINTO E L’ART. 81 DELLA COSTITUZIONE - Un’analisi accurata non può non partire dalla legge 89/01, c.d. legge Pinto, introdotta nell’ordinamento italiano dietro pressione del legislatore europeo. La legge Pinto garantisce, attraverso norme di natura sostanziale e processuale, la possibilità di essere risarciti del danno subito a causa del ritardo con il quale un processo è stato definito. Indennizzo da corrispondersi, naturalmente, da parte dello Stato. Il DDL 1880/S si propone di ridurre gli indennizzi dovuti, con conseguente risparmio per lo Stato, attraverso la riduzione della durata dei processi. Meta difficile da conquistare se, senza alcuna flessibilità, si definisce giusto un processo avente durata pari od inferiore a due anni. Il principio di eguaglianza e ragionevolezza contenuto nell’art. 3 della Costituzione, il cui corollario principale prevede che non possano trattarsi in maniera eguale situazioni differenti, comporterebbe la necessità di individuare l’intervallo temporale entro il quale decidere una controversia, in maniera differenziata e sulla base delle situazioni giuridiche alla sua base. Non si comprende, inoltre, perchè nell’art. 1 del DDL 1880/S si introduca la possibilità di presentare richieste di equo indennizzo per i processi in corso da più di due anni. Tale norma, oltre a mal raccordarsi con il principio secondo cui le leggi possono disporre solo per l’avvenire, delegittima in primo luogo il lavoro dei giudici. I tempi dei rinvii o quelli concernenti la celebrazione delle udienze, infatti, sono frutto di loro decisioni ponderate al caso concreto, pertanto il legislatore interviene a censurare scelte fatte nel momento in cui non doveva rispettare il termine massimo di due anni. Alla luce degli elementi sino ad ora riportati, dunque, deve ritenersi che una simile legge produrrà un aumento significativo e non una diminuzione delle richieste di equo indennizzo con conseguente aggravamento della spesa per lo Stato. Ai sensi dell’art. 81, comma 4 della Costituzione, tuttavia, «una legge che importi nuove o maggiori spese  deve indicare i mezzi per farvi fronte». Il disegno di legge in oggetto, al contrario, quanto meno nel testo odierno, non reca simili indicazioni.


IL PROCESSO PENALE - Il secondo articolo del DDL 1880/S introduce nel processo penale l’istituto dell’estinzione del processo, una sorta di prescrizione processuale che obbliga il Giudice, allo scadere del termine prestabilito, ad emettere una sentenza di non doversi procedere, che costituisce, altresì, il presupposto per l’operatività del divieto di un secondo grado di giudizio. Deve sottolinearsi, in merito, il particolare computo degli intervalli temporali nei diversi gradi del giudizio. Si prevede, infatti, che ogni grado debba concludersi nel termine di due anni. Nel primo i due anni si calcolano a partire dalla richiesta di rinvio a giudizio da parte del P.M., da collocarsi al termine delle indagini preliminari e prima dell’udienza preliminare, ove prevista. Nel secondo grado, invece, ed in quello di legittimità, i due anni decorrono dalla pronuncia del dispositivo della sentenza nel grado di giudizio precedente. Nel grado d’appello, cioè, il termine decorrerà dal giorno della pronuncia del giudizio di primo grado, comprendendo, quindi, anche i giorni necessari per il deposito della motivazione e per l’impugnazione. In tal modo, tuttavia,  il legislatore riduce notevolmente il termine effettivo di durata del processo. Più ragionevole sarebbe stato, invece, far decorrere i termini, a partire dalla prima udienza. L’estinzione processuale, ove divenisse una legge, si applicherebbe ai processi iniziati successivamente alla sua entrata in vigore ed a quelli in quel momento in corso nel primo grado, i quali abbiano ad oggetto reati che prevedano una pena massima di dieci anni, ove l’imputato non sia già stato condannato ad una pena detentiva, non sia un delinquente od un contravventore abituale o professionale.

I REATI INDIVIDUATI - Nel calderone di questa riforma finirebbero, se si lasciasse il discrimine della pena massima di dieci anni, reati quali il peculato, la corruzione, l’abuso d’ufficio, la falsa testimonianza, la frode processuale, i maltrattamenti in famiglia, l’omicidio colposo tranne nei casi in cui esso sia stato provocato contravvenendo a norme del Codice della Strada o per la prevenzione degli infortuni sui luoghi di lavoro, la violenza sessuale, la truffa, l’appropriazione indebita, i reati in materia di imposte dirette e IVA; senza che tale elenco possa considerarsi esaustivo.
Lo Stato, dunque, rinuncerebbe a perseguirli nel caso in cui il processo avesse una durata maggiore ai due anni prestabiliti.


GLI ARTICOLI 3, 24 E 111 DELLA COSTITUZIONE - Quanto sino ad ora riportato permette di comprendere come il DDL c.d. sul processo breve sia discriminante sia nei confronti degli imputati che delle parti offese. Non appare in piena armonia con l’art. 3 della Costituzione poiché a situazioni eguali non corrispondono eguali trattamenti dato che, a parità di reati commessi, i processi penali a carico di imputati non aventi precedenti si estinguerebbero, mentre quelli a carico di imputati che li abbiano dovrebbero continuare. Inoltre la personalità dell’imputato, i suoi precedenti, la sua capacità a delinquere, la professionalità e l’abitualità, dovrebbero venire alla luce soltanto nella fase decisionale del processo ai fini dell’applicazione della pena. Ai sensi dell’art. 133 c.p., infatti, essi costituiscono dei parametri che il giudice utilizza per orientarsi tra le sanzioni minima e massima previste dalla fattispecie penale. Si pensi, poi, alla denegata giustizia, con buona pace dell’art. 24 della Costituzione Italiana, nei confronti  delle persone offese da reati quali i maltrattamenti familiari, la violenza sessuale o l’omicidio colposo derivante da colpa professionale (le c.d. colpe mediche), (nella maggior parte dei casi non commessi da delinquenti abituali o professionali) od agli effetti nei confronti dello Stato, bene giuridico da tutelare nei suoi organi e nelle sue articolazioni, in molte delle fattispecie penali  precedentemente elencate (il peculato, la corruzione, la falsa testimonianza, la frode processuale). I processi aventi ad oggetto i reati suesposti rischierebbero di non giungere mai ad una pronuncia, nonostante nell’ordinamento italiano vada attualmente delineandosi il diritto ad ottenere una sentenza di merito.

Può un processo breve a tutti i costi dirsi giusto?

L’art. 111, comma 2, della Costituzione Italiana dispone che ogni processo si svolga «nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.».
Esso, dunque, è giusto, se coniuga due elementi: la parità delle parti, intesa come parità di strumenti e di azioni e la ragionevole durata. Se solo a quest’ultima, invece, si rivolgessero le attenzioni degli operatori del diritto, non potrebbe dirsi giusto. Non può dimenticarsi, in ultimo, che tale obiettivo potrebbe essere raggiunto applicando nel migliore dei modi le norme già esistenti, si pensi all’art. 132 bis delle disposizioni attuative del codice di procedura penale, ove viene disposto «nella formazione dei ruoli di udienza è assicurata la priorità assoluta alla trattazione dei procedimenti quando ricorrono ragioni di urgenza con riferimento alla scadenza dei termini di custodia cautelare». Per attuare il giusto processo nei lineamenti tracciati dal legislatore costituzionale, pertanto, non occorrerebbero leggi asistematiche come il DDL 1880/S rischia di essere se non accompagnato da una riforma organica del diritto penale sostanziale e processuale, quanto piuttosto l’incremento delle risorse umane, considerando che i posti vacanti tra le file della magistratura ordinaria sono oltre 1100.

*Giovani per la Costituzione

 

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