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di Vittorio Grevi
Se non si tratta di una clamorosa retromarcia, certo si tratta di un «ravvedimento operoso» di sorprendente consistenza. Con l’emendamento presentato ieri al disegno di legge sulle intercettazioni, infatti, il governo ha fatto registrare una netta inversione di rotta rispetto all’indirizzo politico legislativo fin qui seguito, che era stato nel senso di un rigido divieto di pubblicazione esteso a tutti i risultati delle suddette intercettazioni, sebbene ormai depositati a disposizione delle parti, e quindi non più segreti.
L’idea posta alla base di questo inatteso ripensamento è quella (ancora pochi giorni fa rilanciata su queste colonne) volta a prevedere, per un verso, che il divieto di pubblicazione debba riguardare solo le intercettazioni coperte da segreto, da conservarsi perciò in un apposito archivio riservato e, per altro verso, che tale divieto non debba più operare quando il vincolo di segretezza sia venuto meno. Di qui la esigenza di stabilire una precisa linea di confine per distinguere l’area delle intercettazioni ancora segrete da quelle non più segrete, e quindi, di riflesso, per individuare l’ambito dei relativi atti investiti, o non più investiti, dal divieto di pubblicazione.
A questa chiara filosofia di contemperamento tra esigenze investigative, tutela della privacy e diritto di cronaca sembra ora ispirarsi l’emendamento governativo, che si fa carico soprattutto dell’eventuale impiego d’urgenza delle intercettazioni già nel corso delle indagini. Dettando in proposito (sulla scia di analoga previsione del «progetto Mastella», approvato a larga maggioranza dalla Camera nella scorsa legislatura) una serie di meccanismi selettivi diretti a restringere la sfera della loro utilizzabilità alle sole conversazioni che siano riconosciute come rilevanti ai fini del procedimento. Il che vale, in particolare, quando i relativi risultati debbano essere impiegati a sostegno di un provvedimento cautelare (ad esempio di custodia in carcere), ovvero di ispezioni o di perquisizioni.
Allo scopo, infatti, si prevede di attribuire— sia in prima battuta al pubblico ministero, sia successivamente anche al giudice— uno specifico potere di cernita all’interno del variegato materiale raccolto attraverso le operazioni di ascolto: così da escludere da qualunque utilizzo tutte le intercettazioni «riguardanti esclusivamente fatti o circostanze estranei alle indagini». Esse, pertanto, verrebbero restituite, sotto copertura di segreto, all’archivio riservato, mentre le sole intercettazioni ritenute «rilevanti» verrebbero utilizzate (e quindi trascritte) a fondamento del provvedimento adottato. Con la conseguente caduta non solo del segreto, ma anche del divieto di pubblicazione dei relativi contenuti.
Questo procedimento di successive scremature del materiale intercettato, all’insegna dell’esigenza di far approdare nel processo le sole intercettazioni davvero rilevanti (e come tali meritevoli, se del caso, di essere pubblicate) dovrebbe applicarsi comunque, di regola, nell’intero arco delle indagini, attraverso la previsione di una tempestiva udienza «filtro» di fronte al giudice. Un’udienza destinata, per l’appunto, alla selezione delle intercettazioni da acquisirsi, anche quando non si debbano emettere provvedimenti d’urgenza. Fermo restando, in ogni caso, il potere dei difensori di accedere all’archivio riservato, per l’eventuale recupero di intercettazioni ritenute utili dal punto di vista della difesa.
Senza dubbio molti e gravosi problemi rimangono ancora aperti, sull’orizzonte del disegno di legge in materia di intercettazioni. Tuttavia è innegabile che l’emendamento di ieri rappresenti un passo
avanti nella direzione giusta, e possa forse segnare una nuova prospettiva di apertura verso ulteriori ripensamenti. Necessari soprattutto rispetto ai troppi ed insensati limiti che si vorrebbero imporre, senza alcun criterio di ragionevolezza, all’impiego di uno strumento investigativo tanto spesso indispensabile per lo sviluppo delle indagini.
*dal Corriere della sera 21 luglio
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