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Articolo 21 - Editoriali
Somalia: perchè si combatte ancora?
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di Emauele Piano*

Ennesimo capitolo della guerra civile più insensata dell'Africa. Ieri a Mogadiscio, capitale della Somalia, due militanti islamici del gruppo filo-qaedista di Al Shaabab – la gioventù in somalo – hanno attaccato un albergo travestendosi da militari. I terroristi hanno aperto il fuoco nella hall dell'Hotel Muna uccidendo trentadue persone, fra cui sei deputati del parlamento, prima di farsi esplodere con una granata.  Unanime la condanna internazionale ad un attacco che prende di mira il fragile governo di transizione e le sue istituzioni. Gli Shaabab hanno rivendicato l'attentato ed esaltato i “martiri”.

Il mese del Ramadan, sacro per i musulmani e durante il quale si digiuna dall'alba al tramonto, sta purtroppo rispettando le aspettative. Molti analisti si attendevano una recrudescenza delle ostilità e così è stato. Da settimane si combatte all'interno di Mogadiscio, una città da 20 anni letteralmente ridotta in macerie. Soltanto nei giorni scorsi almeno 40 persone erano morte in scontri fra l'esercito, affiancato dai caschi blu delle Nazioni Unite, e le milizie irregolari. Gli Shaabab hanno annunciato lunedì una “guerra massiccia” contro gli “invasori” dell'Unione Africana. In Somalia, infatti, sono di stanza circa seimila caschi blu provenienti da Uganda e Burundi. E proprio la capitale ugandese è stata oggetto di un duplice attentato dinamitardo durante la finale della coppa del mondo a causa della sua partecipazione militare all'operazione Onu. Anche questo attentato, costato la vita a 74 persone, è stato rivendicato dall'ala radicale dell'islamismo fondamentalista somalo.

La guerra civile in Somalia, de facto colonia italiana fino all'indipendenza nel 1960, è cominciata nel dicembre del 1990 per rovesciare il regime di Siad Barre. Cosa regolarmente avvenuta, ma la transizione verso un nuovo assetto del potere non c'è mai stata. Il vuoto creato è stato conteso da una miriade di fazioni armate e signori della guerra organizzatisi su basi claniche che hanno cominciato a darsi battaglia per prendere il controllo di Mogadiscio. L'intervento dell'Onu, con la missione “Restore Hope”dal 1992 al 1996, è stato un fallimento e per almeno un decennio la Somalia è stata abbandonata al proprio destino. La comunità internazionale è stata a guardare mentre i somali si scannavano, ha finanziato governi fantoccio ed inutili conferenze di pace rinunciando ad intervenire. Ad i warlords si sono affiancate nella contesa le corti islamiche, finanziate dai ricchissimi businessmen della capitale somala e dai Paesi del Golfo arabico, che hanno tramutato un islam pacifico in quello wahabita dei predicatori combattenti della vicina penisola arabica. Sono arrivanti i combattenti stranieri di Al Qaeda ed in Somalia sarebbero riparati gli  autori degli attentati alle ambasciate Usa in Tanzania e Kenya nel 1998 e nel 2002. Nel 2006 l'Etiopia, su input statunitense, ha deciso di inviare il proprio esercito per scacciare gli islamisti che ormai controllavano Mogadiscio e per sostenere un debole governo transitorio nato nel 2004 a Nairobi. Un anno più tardi è stata formalizzata dal Consiglio di Sicurezza la missione di pace africana.

Sullo sfondo una domanda: perché si combatte ancora in Somalia? I somali sono un unico gruppo etnico, con una sola lingua ed una sola religione. Una rarità in Africa. Durante il regime di Siad Barre la Somalia, per la sua posizione strategica nel Corno d'Africa ed a guardia del Golfo di Aden, era contesa da Stati Uniti ed Unione Sovietica. Non è un caso che le marine militari di mezzo mondo si siano mobilitate con grande spiegamento di mezzi per salvaguardare dai pirati la rotta che dal Canale di Suez transita davanti alla Somalia verso l'Oceano Indiano. Altrettanta unità di intenti non è stata impiegata dalla comunità internazionale per disarmare i signori della guerra, ripristinare uno Stato centrale che non esiste ormai più evitando così il proliferare – nella miseria, nella mancanza di istruzione e di alternative – di una generazione di giovani somali nati nel conflitto ed oggi vittima delle manipolazioni  del fondamentalismo islamico foraggiato dall'estero. Sullo sfondo una progetto di smembramento della Somalia in tre tronconi: il Somaliland, il Puntland ed il centro-sud. A pagarne le conseguenze due milioni di somali, un terzo della popolazione, che secondo le stimen della FAO ha bisogno di aiuti alimentari per sopravvivere.

*da il fatto quotidiano

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