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Articolo 21 - Editoriali
Belzebù e l’eroe borghese. Andreotti infierisce su Ambrosoli: “Se l’andava cercando”
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di Lorenzo Frigerio*



Giorgio Ambrosoli“Questo è difficile, non voglio sostituirmi alla polizia o ai giudici, certo è una persona che in termini romaneschi se l'andava cercando”: è questa la risposta che Giulio Andreotti, senza battito di ciglia, senza tradire alcuna emozione, offre al giornalista che gli chiede perché l’avvocato Giorgio Ambrosoli sia stato ucciso. L’intervista integrale, anticipata oggi dal “Corriere della Sera” con un bel commento di Corrado Stajano, è uno dei pezzi forti de “La storia siamo noi”, in onda questa sera su Rai Due alle 23.50 e dedicata proprio al professionista ucciso l’11 luglio del 1979 da un killer mafioso mandato da Michele Sindona.

Lo speciale intitolato “Qualunque cosa succeda. Storia di Giorgio Ambrosoli” riprende il titolo del bel libro edito da Sironi - http://www.sironieditore.it/libri/libri.php?ID_libro=978-88-518-0120-5 - e scritto dal figlio di Ambrosoli, Umberto, che ricostruisce la storia di un uomo che ha lavorato indefessamente e ha perso la vita per i valori in cui credeva.

A prima vista può sembrare forse una caduta di stile, una battuta non particolarmente riuscita all’uomo più famoso d’Italia – prima dell’avvento dell’attuale premier – per le sue facezie divertite e le sue arguzie in punta di fioretto, ma soltanto ripensando alla storia del nostro Paese si può comprendere come lo sfregio sia stato voluto fino in fondo e appartenga proprio alla cifra politica e umana di Andreotti.

Il senatore inquisito e prescritto per associazione mafiosa – prescritto e non prosciolto come vuole la vulgata diffusa – ha costruito la sua lunga carriera, con lucidità e pragmatismo, superando ostacoli e stringendo alleanze, aggirando scandali e cadaveri e non esitando a ricorrere ai servigi di personaggi per lo meno “discutibili”, per usare un sottile eufemismo.

Non a caso, sempre nell’intervista rilasciata alle telecamere del programma di Giovanni Minoli, mentre liquida nella maniera sprezzante appena ricordata Ambrosoli, non esita ad elogiare l’operato di Michele Sindona, all’epoca dei fatti già definito “il salvatore della lira” e ancora una volta elogiato pubblicamente: “Dette un allarme per quelli che erano i pericoli del sistema finanziario internazionale che nell’immediato pochi compresero. Ma poi si è visto quanto fosse tempestivo”. E ancora, sempre sul bancarottiere al servizio delle cosche palermitane dei Bontade e degli Inzerillo all’epoca padroni indisturbati dentro Cosa Nostra o di quella italoamericana dei Gambino,: “Non sono mai stato sindoniano, non ho mai creduto che fosse il diavolo in persona”.

Detto da uno che, tra i tanti soprannomi guadagnati in sessant’anni di storia repubblicana, si è guadagnato anche l’appellativo di “Belzebù”, non può che far sorridere amaramente.

Tuttavia, c’è poco da sorridere di fronte all’insulto postumo, alla profanazione cinica degli affetti e dei valori rappresentati da Giorgio Ambrosoli, al mancato ricorso alla pietas cristiana da parte di chi poi non esita invece ad ostentarla nei baciamano a pontefici e cardinali.

Perché  tanta superficiale cattiveria? Perché, seppure a distanza di trent’anni, Andreotti ha perso l’occasione di recuperare l’errore commesso allora di non appoggiare Ambrosoli nella battaglia per la legalità contro le manovre di Sindona?

La risposta è fin troppo scontata: non fu affatto un errore di valutazione, non ci fu alcuna sottovalutazione allora, ma vi fu piuttosto piena complicità, sicuro avvallo alle richieste criminali di Sindona. Una complicità e un avvallo comprovate dall’aver Andreotti messo in campo tutte le pedine che potessero essere utili, in qualsiasi modo, alle manovre disperate del finanziere di Patti, volte a coprire il dissesto per i risparmi dei privati e le casse pubbliche che il lavoro silenzioso di Ambrosoli, invece, stava portando lentamente alla luce.

Stammati e Evangelisti, tra i tanti politici della corrente andreottiana, furono i più attivi in quegli anni a tramare per porre nel nulla l’opera di pulizia nei conti e nelle operazioni della Banca Privata Italiana, di cui l’avvocato milanese fu nominato liquidatore dalla Banca d’Italia.

Furono loro gli interlocutori dei rappresentanti di Sindona, mentre Andreotti e altri assicuravano piena copertura politica al milieu nel quale l’avventura di Sindona era maturata e progredita. Lo stesso contesto, quello della P2 per intenderci, che poi ritroveremo nella vicenda di Calvi e del Banco Ambrosiano. Un contesto che, a contrario, spinse di fatto Ambrosoli in un angolo, supportato soltanto da pochi coraggiosi, come il maresciallo Silvio Novembre della Guardia di Finanza o Paolo Baffi e Mario Sarcinelli, gli unici che all’interno della Banca d’Italia garantivano una sponda all’avvocato intransigente e che, proprio per questo, vennero ad un certo punto tolti di mezzo da un’indagine pretestuosa e creata ad hoc.

Dietro la violenza verbale del senatore a vita, una violenza verbale che si vuole atteggiare a motto di spirito, c’è tutta la cultura che in questi anni, anche nel nome di Ambrosoli, la società civile e responsabile, come ama ricordare Don Ciotti, ha voluto combattere.

L’idea che uno si sia cercato la morte facendo il proprio dovere è un messaggio devastante.

Quale storia condivisa da trasmettere alle nuove generazioni vogliamo costruire?

Una storia dove soltanto i furbi, i corrotti, coloro che si fanno gli affari propri e non se la vanno a cercare sono i vincenti, escono trionfanti? Una storia dove non c’è nulla per cui valga la pena combattere e, se del caso, anche perdere la vita?

In una storia così Falcone sarebbe morto nel corso di un incidente automobilistico, Borsellino e Chinnici per il cedimento strutturale di alcuni palazzi palermitani, Don Diana per vicende torbide…

Ogni tanto qualcuno ci prova a calunniare, ogni tanto riaffiora la tentazione di regolare i conti anche con chi non c’è più, con chi è stato ucciso perché faceva il suo dovere.

Con pazienza, coltivando il vizio della memoria, per usare la felice espressione di Gherardo Colombo, occorre spiegare ai più giovani, ma anche agli adulti chi era Ambrosoli e chi è Andreotti, lasciando che ciascuno scelga chi dei due rappresenti l’idea dello Stato come casa comune, della democrazia come esercizio di responsabilità.

E siamo contenti che l’ultima Giornata della memoria e dell’impegno promossa da Libera si sia svolta a Milano, perché è stata l’occasione per tanti di riscoprire la parabola umana e civile di Giorgio Ambrosoli. I 150.000 di piazza Duomo erano lì, accanto alla moglie e alla famiglia Ambrosoli, anche per non dimenticare l’avvocato ucciso dalla mafia. Una sorta di riconoscenza postuma, collettiva che occorre praticare ancora, a maggior ragione dopo i tentativi di Andreotti di affossarne il ricordo.

Capiamo anche che per alcuni, tra cui Andreotti, diventi insopportabile l’esercizio della memoria, perché diventa difficile confrontarsi con l’alta levatura morale dei tanti eroi borghesi, morti per questo Paese, che spesso e volentieri fa di tutto per non meritarseli.

Senatore, abbia pazienza per il duro sfogo, ma in fondo se l’è cercata… 
* Libera Informazione 
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