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Ma perché vengono a Roma ladrona?
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di Federico Orlando

Ma perché vengono a Roma ladrona?

Sabato, a piazza san Giovanni, Roma ladrona ospiterà pidiellisti e leghisti, che le chiederanno solidarietà per Berlusconi e la Polverini. Ad accoglierli dovrebbero esserci anche  non pochi fannulloni dei pubblici impieghi, nonché quelli che fanno un po’ schifo, come qualche ministro definisce chi lavora nello spettacolo, nella comunicazione, nell’audiovisivo e magari nella moda: che sono le principali attività produttive di centinaia di migliaia di romani e laziali, e che fanno dell’economia capitolina una realtà originale: dove le materie prime sono la cultura, la creatività, la laboriosità, l’individualismo artigiano e l’armonia collettiva, e i prodotti sono opere di pensiero; che invadono il mercato col genio e il gusto italiano, e col marchio Made in Italy; e contribuiscono al Pil nazionale e al “mito” dell'Italia. Ricordavamo ieri (soprattutto ai candidati del 28-29 marzo) che nella regione ci sono 50 mila lavoratori dello spettacolo (Enpals) più 200 dell’indotto (carpentieri, operai, ristoratori, albergatori, autisti…): gli stessi numeri della Fiat a Torino e Piemonte. Oltre ventimila sono gli operatori iscritti all'Ordine dei giornalisti del Lazio, e altrettanti lavorano nell’indotto: dai distributori agli edicolanti. Quarantamila, ma dieci anni fa erano 80 mila, lavorano nella moda, grandi case, sartorie artigianali, modelle, indossatori, negozi dell’abbigliamento, addetti alla promozione. I protagonisti di queste attività, e le loro famiglie, popolerebbero una città grande come Milano. E comunque sono un terzo di quella Roma ladrona fatta di fannulloni e di gente che fa un po’ schifo alla destra ministri di Berlusconi. La quale però ne ha sempre calamitato non pochi voti, e sabato tornerà a sollecitarli. Gente dell’informazione, della moda, dello spettacolo.
       Con quale coraggio, visto che la crisi e il governo li stanno riducendo all’impotenza civile? Guadiamone l'immagine, specchiata nei due maggiori quotidiani di Roma, Il Messaggero e la Repubblica. Il primo, intervenendo nel ping pong sui talk show dei due venerandi presidenti di “garanzia” Zavoli e Garimberti (ma perché non rimettono i loro mandati al presidente della Repubblica?), ha quantificato l' impar condicio dell’informazione politica. Difatti, suonato il silenzio d'ordinanza sui talk show, perfino l’Autorità (si fa per dire) delle comunicazioni ha scoperto che i telegiornali, ultimi protagonisti del bello e del cattivo tempo, sono squilibrati. Cominciamo dal Tg1, il cui direttore si paragona a Giovanni Amendola, che in verità non concordava al telefono i suoi editoriali col Duce, e per questo fu ammazzato dai fascisti. Dunque, il Tg1 dà al Pdl il 24,95 % del suo tempo, il 18,05 al Pd (ci limitiamo ai due partiti più grossi). Il Tg2 il 27,12 e il 17,26. Il Tg3 il 29,22 e il 23,65. Rainews 24 il 29,47 e il 29,81 (miracolo Mineo); il Tg5, il 31,99 e il 18,01; il Tg4 il 62,71 e zero al Pd; Studio Aperto il 17,89 e il 15,26; Sky Tg24, il 33,6 e 20,29; La7, il 38,64 contro il 10,76. Queste sono le porzioni di droga che un giornalismo a vocazione servile (per costume e per bisogno) inietta ogni giorno nel cervello degli italiani. Ma Roma ladrona non c’entra. C'entrano il sultano e i suoi manutengoli romani: politici, garanti, pennivendoli, monsignori, piduisti, furbetti del quartierino, magistrati del porto delle nebbie, e altra fauna.       
         Passiamo alla moda. Ieri la Camera ha varato la legge Reguzzoni sul Made in Italy sottoscritta da tutti i partiti. Essa impone che quel marchio sia attribuito solo a lavorazioni fatte  per la maggior parte  in Italia. Oggi basta fare in Italia il 10 per cento del prodotto finito e lo si spaccia come Made in Italy. Sarà stato un regalo cinesi di Prato o di piazza Vittorio, ma ha contribuito a distruggere il lavoro italiano. Così – informa la Repubblica – la moda fugge dalla capitale. Le grandi firme sono in difficoltà perché la crisi colpisce non solo il lusso ma anche il pret-à-porter, e non pagano i sub-fornitori, che falliscono: nel Lazio la cassa integrazione è cresciuta nel 2009 del 525 %, il fatturato è diminuito del 66%, gli ordini del 77. E’ a rischio l’immagine stessa del settore. A piazza di Spagna le macchine da cucire di Valentino sono ferme, i 170 laboratori di Ferré sparsi nel Lazio trattengono il respiro, a via Veneto Gattinoni supera la crisi ma lavora al minimo, a via Barberini Brioni sconta la caduta del mercato americano. Da tempo le sorelle Fendi hanno venduto ai francesi. I grandi negozi monomarca sono in bilico: List sulla Tiburtina sta appena uscendo dal tunnel dei contatti di solidarietà, Miss Sixty ha chiuso l’ufficio stile di piazzale Flaminio, il centenario calzificio Paladino di Porta Maggiore deve soggiacere alla cassa integrazione in deroga. I sintomi di ripresa sono limitati: resistono i fratelli Ferrone, e Laura Biagiotti che trasferisce la storica boutique di via Borgognona ma lancia profumi come “Roma” e “Misteri di Roma”, “per far capire quanto la nostra casa crede in questa città”. Giusto, ma cosa hanno da dire a questa città governanti e leghisti, sabato a piazza san Giovanni? Hanno solo saputo tagliare. Hanno tagliato dovunque. Berlusconi che iniziò la sua ascesa con  lo slogan “vietato vietare”, tramonta vietando tutto
       Lo sanno i lavoratori dello spettacolo. La legge sul teatro è attesa da cinquant'anni, e perfino deputati di destra, Carlucci e Barbareschi, non vedono l'alba per la loro proposta di legge quadro sullo spettacolo dal vivo, presentata il 20 aprile 2008. Il loro governo non la vuole. La legge “madre” sul Fus, votata nel 1985, aspetta da allora le leggi “figlie”, mai varate: nemmeno dopo la riforma del titolo V della Costituzione, che conferisce alle regioni competenze anche finanziarie nello spettacolo, nel quadro di leggi nazionali. In Germania il sostegno alle attività culturali è materia e privilegio dei Lander e dei Comuni. Ma a Roma, nonostante la mancanza di leggi-quadro nazionali, la regione Lazio si è mossa. Nel solo settore dell'audiovisivo, 400 imprese attive (su 860)  sono nel Lazio; e nel Lazio crescono anche in piena crisi le professioni creative, artistiche, “autoriali”, tecniche, artigianali, legate al cinema, all’audiovisivo, al teatro, allo spettacolo dal vivo, come scrivevamo ieri. Lo schieramento che sostiene la Bonino prevede il Fus regionale triennale, leggi-quadro regionali per il teatro, stabilizzazione della produzione di fiction e lungometraggi,  distretto creativo-industriale dell'audiovisivo, sostegno al circuito cinematografico, impiego di fondi europei per l'intera filiera e la transizione verso il digitale e il 3D, scuola d'alta formazione continua, adeguamento di infrastrutture. Cosa proporranno i sostenitori della Polverini, che, almeno da sindacalista, conosce queste realtà: compresa la “musa bizzarra e altera”, la lirica, che assorbe metà del Fus, a sua volta sceso in un anno da 460 a 380 milioni di euro? Vietato vietare? Dicano a piazza san Giovanni perché invece hanno vietato tutto.
          Ps. Se non avranno nulla da dire, mandino almeno un messaggino ai centomila e più ragazzi e ragazze che sabato, alla stessa ora, si riuniranno in piazza Domo a Milano per il 15^ Giorno della Memoria, promosso da don Luigi Ciotti. Memoria di morti ammazzati dai mafiosi, compari dell'e-ro-i-co stalliere Mangano. Tra processi demonizzati  e informazione imbavagliata, potrebbero trovare un  posticino anche quei morti?            


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