di Shukri Said*
Il buco nero del mondo si chiama Somalia.
Da venti anni è la terra di nessuno dove il peggio della peggiore umanità si è data appuntamento.
Guerre tribali, terrorismo, pirateria, fondamentalismo islamico, traffico d’armi, di droga, di rifiuti tossici radioattivi e di esseri umani convivono in un viluppo che appare inestricabile e forse lo è, ma non solo per colpa dei somali.
Certo i somali hanno le loro colpe. Trascinandosi dietro le tradizioni claniche e le contrapposizioni tribali, non aiutano certo la riconciliazione, ma la forte identità nazionale potrebbe essere l’elemento per superare, se non eliminare, gli steccati e favorire la riunificazione.
La più grave malattia dei somali è l’individualismo che, già presente nelle sottofamiglie, inquina l’intera società in tutte le sue divisioni claniche. Tuttavia proprio questa debolezza permette anche di riconoscere la leadership, quando si presenta, e di sostenerla.
Ma l’individualismo somalo è stato anche sfruttato dai furbacchioni internazionali per adulare i Signori della guerra, i Warlords, e gestirli come burattini per qualunque interesse, dal traffico delle armi, al business dei rifiuti tossici guidandoli nel far fallire ogni accordo pacificatore con il quale cesserebbero le loro fortune e la loro visibilità.
La stoltezza di questa gestione territoriale ha aperto la breccia agli Al Shabaab, il braccio armato di Al Qaeda in Somalia, che con il suo law & order ha conquistato non pochi adepti. Solo che la law degli Al Shabaab è la Sharia ed il moltiplicarsi di amputazioni di mani e di gambe, di lapidazioni e fustigazioni sta portando la popolazione a non sapere più se stava meglio quando pensava di stare peggio.
In esito di questa situazione, tra i 600 e gli 800 mila somali sono rimasti uccisi, più di un milione si è rifugiato in altri paesi e circa un milione e mezzo ha abbandonato i territori di origine per sfuggire a guerra e malattie legate al terrore spostandosi in altre zone.
In questo intreccio di egoismi, la collettività internazionale si è impegnata promuovendo il formarsi delle istituzioni di transizione quali un parlamento di 550 membri, un presidente della Repubblica ed un consiglio dei ministri che dovrebbero portare all’adozione definitiva di una governance, della Costituzione e di una legge elettorale capaci di sfociare in elezioni democratiche a suffragio universale. Un obiettivo che è sin qui sfuggito ripetutamente, nonostante oltre 15 conferenze di pace e riconciliazione, a causa dei balletti di alleanze dei personaggi più in vista della frammentata politica somala.
Ma nello scorso dicembre si è manifestato un evento straordinario: con 297 voti a favore e 92 contrari è stato eletto Primo Ministro il Prof. Mohamed Abdullahy Mohamed, detto “Farmajo”, che, di origine somala e diplomatico del Ministero degli esteri sino alla caduta di Siad Barre nel 1991, si è poi rifugiato negli USA, divenendone cittadino e docente all’Università di Buffalo (New York).
Una simile personalità, cosmopolita, per nulla coinvolta nelle lotte dei Warlords e poco sensibile alle logiche claniche, ha portato una ventata di novità nello stanco processo di transizione. Sotto la sua leadership, per la prima volta, è stata interessata la diaspora nel processo di ricostituzione delle istituzioni chiedendo all’Italia di aggiornare i vecchi dirigenti dell’epoca di Siad Barre affinché si rendano mentori delle nuove generazioni di funzionari pubblici. Sono stati anche invocati dall’Italia interventi per la formazione delle nuove forze di polizia e per la sicurezza, ma si è anche chiesto che i fondi di 27 milioni svincolati sin dal 2009 siano messi a disposizione direttamente del Governo Federale di Transizione (GFT) attraverso un trust fund come in Afghanistan, anziché farli transitare dalle agenzie internazionali che trattengono alte percentuali di funzionamento, usano le disponibilità per interferire in sede locale ed erogano al GFT solo una minima parte e, per di più, senza la continuità necessaria al regolare pagamento degli stipendi dei pubblici dipendenti.
A questa nuova fermezza governativa e chiarezza di prospettive si accompagna la lotta alla corruzione come solo un “americano” che può campar d’altro, può permettersi di combattere e il nuovo corso sta attraendo sempre più la popolazione cosicché anche le truppe governative, affiancate da AMISOM - la missione militare africana di sostegno alle istituzioni transitorie - stanno guadagnando terreno contro i fondamentalisti di Al Shabaab.
Si riconosce che il GFT domina attualmente circa il 70% di Mogadiscio mentre il Ministro della difesa ha potuto viaggiare per visitare la regione di Gedo, al confine col Kenya, come dal 1991 non si riusciva più a fare ed è stato inoltre arrestato il capo dei servizi di sicurezza dei jihadisti.
In effetti il Primo Ministro Mohamed A. Mohamed sta mostrando al mondo che la Somalia ha una profonda identità nazionale rispetto alla quale la stessa ipotesi federalista, su cui si fonda la transizione perseguita dalla comunità internazionale, è inadeguata perché le divisioni claniche non rispondono ad ambiti territoriali, ma ad una esigenza di partecipazione al potere.
Come ha detto il Prof. I. M. Lewis: “… in controtendenza rispetto al resto dell’Africa, dove gli Stati stanno lottando per diventare nazioni, il popolo somalo rappresenta una nazione che lotta per diventare Stato.”.
Questa nuova opportunità per la Somalia presenta, però, un limite temporale determinante: il 20 agosto tutte le istituzioni della transizione dovrebbero decadere ma le promesse del nuovo corso voluto da Mohamed A. Mohamed invitano tutti ad ipotizzare una proroga che, tuttavia, non vede unanimità di vedute. Anzi, si prospettano soluzioni di assai dubbia legittimità e, quel che preoccupa di più, anche con appoggi internazionali insospettabili.
Il Primo Ministro ha proposto una proroga di tutte le istituzioni per un anno ed ha ottenuto il sostegno del Presidente della Repubblica Sheikh Sharif e dell’AMISOM. Scopo della proroga, nelle prospettive di Mohamed A. Mohamed, è il completamento della lotta ad Al Shabaab e creare le condizioni per indire le elezioni. Contro si è schierato il Presidente del Parlamento somalo Sharif Hassan che ha proposto il rinnovo per tre anni del solo Parlamento con la decadenza delle altre cariche: una posizione illegittima a prima vista perché in contrasto col principio simul stabunt simul cadent che regge le istituzioni della transizione somala per la contemporaneità della loro scadenza e che Sharif Hassan ha giustificato con l’intenzione di evitare un vuoto di potere. La proposta manifesta, invece, l’avversità al Primo Ministro già mostrata in occasione della sua elezione, quando Sharif Hassan costrinse il Presidente della Repubblica Sheikh Sharif a rivolgersi alla Corte Suprema affinché l’elezione di Mohamed A. Mohamed avvenisse con voto palese onde assicurargli un vasto consenso parlamentare così come poi ottenuto.
La pretestuosità della proposta di Sharif Hassan non desterebbe preoccupazione se non fosse stata approvata, sia pure limitando a due anni la proroga del solo Parlamento, in esito alla riunione promossa dall’ufficio speciale politico per la Somalia delle Nazioni Unite – UNPOS – con a capo l’Ambasciatore Mahiga, conclusasi a Nairobi lo scorso 13 aprile.
Il GFT aveva rifiutato la partecipazione alla conferenza chiedendo che si tenesse in Somalia, ma Mahiga ha proseguito nell’organizzazione nonostante la diserzione del Governo l’avesse ridotta ad uno “scambio di informazioni” in vista di colloqui di pace di più ampio respiro.
In effetti Mohamed A. Mohamed, con l’efficace supporto del Presidente Sheikh Sharif, ha svolto una formidabile controffensiva diplomatica che ha conquistato il capo dell’AMISOM, l’Uganda, l’Etiopia, il Burundi, Gibuti e persino il Primo Ministro del Kenya volta ad organizzare, per metà del prossimo giugno, a Mogadiscio, una conferenza di pace e riconciliazione per decidere i destini della transizione.
Contro la conferenza di Nairobi sono poi insorti 111 membri dell’intellighentia somala in diaspora che hanno scritto una lettera di protesta a Ban Ki-moon e 100 deputati hanno presentato una mozione di sfiducia al loro Presidente Sharif Hassan.
L’ONU di Mahiga si è quindi trovata spiazzata con il fallimento della conferenza di Nairobi che si è riflesso anche nella tavola rotonda tenutasi a Roma il 20 aprile sotto la presidenza del Ministro Frattini ed alla presenza dello stesso Mahiga e dell’Ambasciatore somalo in Italia Nur Adde, vicino al Presidente del Parlamento Sharif Hassan.
Il Ministro, dopo aver riconosciuto i contrasti tra le istituzioni somale, da risolvere nel rispetto delle decisioni interne, ha ricordato i fondi messi a disposizione della Somalia e la propria guida della commissione di contrasto ai flussi finanziari illeciti connessi con la pirateria rinnovando l’impegno per il sostegno alla Somalia. Però ha chiesto di più alle istituzioni somale per garantire che i fondi arrivino dove sono destinati, come il pagamento dei salari, la ricostruzione delle istituzioni, la lotta al terrorismo e alla pirateria.
Il GFT, da Mogadiscio, ha espresso rammarico per non essere stato adeguatamente rappresentato a Roma dove il Primo Ministro ha nominato propri fidati consiglieri, noti alla Farnesina, ma non invitati da Frattini. Si lamenta poi che i temi toccati dal Ministro Frattini erano proprio quelli per i quali il Primo Ministro somalo, con una missiva di febbraio, aveva indicato le lacune chiedendo la diretta disponibilità dei fondi italiani.
L’Italia, sul piano formale, promette la lotta ad Al Shabaab, alla pirateria ed alle mille nefandezze che inquinano la vita politica somala, ma non sembra cogliere l’opportunità innovativa di un Primo Ministro libero dai condizionamenti interni, colto e liberale, formatosi nei principi democratici e dedito al servizio della comunità somala.
Questi ripetuti episodi, in Somalia, stanno aprendo la strada all’opinione che siano proprio gli organismi internazionali ad ostacolare la pacificazione tra le fazioni somale dalla cui litigiosità sembrano dipendere le fortune di tanti, troppi, attori che pure si dicono impegnati per la pace nel Corno d’Africa. Invero, vent’anni di instabilità sembrano veramente troppi rispetto agli sforzi profusi.
Il banco di prova del GFT sarà comunque la conferenza di Mogadiscio del prossimo giugno al cui esito ci sarebbe ancora il tempo perché il Presidente della Repubblica Sheikh Sharif eserciti il suo potere di sciogliere il Parlamento ed indire le elezioni prima della scadenza del 20 agosto.
*da Left