Articolo 21 - Editoriali
Ricordando Siamak Pourzand
di Pietro Marcenaro
Siamak Pourzand era uno dei più importanti dissidenti del regime iraniano. Si è suicidato a 80 anni gettandosi dal sesto piano della casa di Teheran in cui viveva agli arresti domiciliari dal 2006. Non aveva mai voluto lasciare l’Iran, nonostante ne avesse avuto più volte l’occasione. La sua storia è lo specchio di quello che è successo a migliaia di famiglie iraniane da quando il regime degli ayatollah ha preso il potere nel 1979.
Prima della rivoluzione khomeinista, Siamak Pourzand faceva il corrispondente per il giornale iraniano Keyahn. Tra le altre cose, aveva intervistato il presidente americano Richard Nixon e raccontato il funerale di John F. Kennedy. A un certo punto era diventato famoso per le recensioni sui film hollywoodiani, e aveva iniziato a scrivere di cinema anche per la prestigiosa rivista francese Cahiers du Cinema.
Con l’avvento del regime perse il suo lavoro al giornale, e iniziò a scrivere per riviste minori. Negli anni Novanta riemerse come parte della nuova opposizione che si era formata negli anni successivi alla morte di Khomeini e alla fine della guerra con l’Iraq. I servizi segreti iraniani iniziarono a seguirlo da vicino quando nel 1998 raccontò il funerale dei coniugi Darius e Parvaneh Forouhar, due intellettuali dell’opposizione che erano stati uccisi nel loro appartamento di Teheran. La sua cronaca telefonica fu trasmessa in diretta dalla KRSI, radio iraniana con base a Los Angeles.
Nel 2001 fu catturato dai servizi segreti vicino alla casa di sua sorella, a Teheran. La sua famiglia non ebbe notizie di lui per due settimane, il suo luogo di detenzione rimase sconosciuto per mesi. Pourzand fu trasferito da un carcere all’altro per almeno un anno, senza avere la possibilità di ricorrere a nessuna forma di protezione legale. Fu interrogato e torturato ripetutamente, nonostante avesse già oltre settant’anni. Tentò il suicidio per la prima volta.
Il suo caso fu gestito dal giudice Sabiri Zafarqandi, famoso per la sua intransigenza e assoluta fedeltà al regime. Pourzand fu accusato di avere usato la stampa per congiurare contro il governo, di avere cospirato con i nemici stranieri, di avere collaborato con il vecchio apparato d’intelligence iraniana, di avere abusato di alcol e di avere avuto una relazione extraconiugale con la segretaria del Centro per la Cultura e per le Arti.
Costretto a confessare tutti questi reati, fu condannato a undici anni di carcere e 74 frustate. Ebbe un primo infarto in carcere nel maggio del 2002. A luglio fu costretto a confessare in televisione di fronte al giudice Zafarqandi e ad alcuni giornalisti che il governo si era preoccupato di istruire. Quando uno di questi fece una domanda che non era stata prevista, Pourzand si rivolse al suo avvocato d’ufficio e chiese: «Questa non era nell’elenco, che cosa devo dire?». Tentò il suicidio una seconda volta nello stesso mese, cercando di impiccarsi con i suoi pantaloni. Scarcerato per alcune settimane in occasione dell’arrivo di una delegazione europea a Teheran, fu riportato in prigione pochi mesi dopo, e costretto dal giudice Zafarqandi a firmare un libro scritto da altri.
Nel 2004 fu colpito da un secondo infarto, ma solo nel 2006 gli furono concessi gli arresti domiciliari. Quando Neda Soltan fu uccisa durante le proteste seguite alle elezioni del 2009, Pourzand disse a sua figlia Azadeh: «Hanno ucciso mia figlia». Il regime non ha voluto che il suo corpo fosse sepolto nel cimitero degli artisti, come aveva chiesto la famiglia, perché il suicidio viola i dettami dell’Islam. Ai familiari e agli amici è stata anche negata la possibilità di parlare al suo funerale. Metà del pubblico che ha partecipato alla cerimonia era formato da agenti dei servizi segreti.
La notizia della morte di Siamak Pourzand, avvenuta il 29 aprile, è arrivata soltanto in questi giorni all’attenzione della stampa mondiale, grazie agli sforzi delle figlie. Questa è la lettera che Azhed Pourzand ha scritto al padre tre giorni dopo la sua morte.
Davvero? Ti sei buttato dalla stessa finestra da cui ti affacciavi ogni giorno a immaginare il nostro ritorno? Quando venni a trovarti brevemente cinque anni fa con l’intelligence che non mi perdeva mai di vista, mi prendesti la mano, mi portasti a quella stessa finestra, mi mostrasti una scuola elementare dall’altra parte della strada e mi dicesti «È una scuola di bambine. Le senti mentre giocano con i loro veli? La mia piccola Azadeh è ancora tra loro. Sei sempre lì, a giocare nel cortile. Mi sveglio tutti i giorni e ascolto la loro cerimonia mattutina immaginando la mia piccola farfalla, Azi, tra loro». Poi ci mettemmo ad ascoltare e guardarle giocare e urlare nel cortile. Poi mi facesti promettere che un giorno anch’io avrei portato un bambino in questo mondo. Mi promettesti che saresti rimasto vivo finché non sarei entrata a Harvard, avessi scritto la nostra storia, avuto una bellissima famiglia e ti avrei portato un nipotino con cui giocare così non saresti stato più solo e non ti saresti più annoiato. Allora ci siamo messi a ridere e io ti ho detto: «Papà, lo chiamerò Siamak». E abbiamo sorriso. «Ma ora è troppo presto per pensare a queste cose», mi dicesti «voglio soltanto che tu sappia che non vedo l’ora di vedere il piccolo bambino di Azadeh e che aspetterò fino a quel giorno, se Dio vorrà, e mi manterrò in salute finché non saremo di nuovo insieme».
Che cos’è successo, Siamak Pourzand? Mi avevi promesso che avresti aspettato su quel balcone. E poi non hai potuto aspettare più. Non ti biasimo, nemmeno per un secondo. Avevi tutto il diritto di cercare la libertà in questo modo. […] Ho sentito che ti sei aggrappato al balcone per un secondo prima di lasciarti cadere. Era perché te n’eri pentito? O perché per un secondo, mi hai sentito bussare alla porta? Il pensiero di te aggrappato per un secondo a quel balcone mi sta uccidendo. Mi manchi così tanto, papà. Mi sei mancato per anni. Ma almeno potevo prendere il telefono e sentire la tua voce. E adesso? Chi mi chiamerà per lasciarmi quei buffi messaggi tutti i giorni? Chi? Davvero te ne sei andato per sempre? Non posso crederci. È successo davvero? Davvero ti sei buttato da quella finestra? Che cos’hai pensato mentre cadevi dal sesto piano fino al momento in cui la terra ha colpito la tua testa? Hai pensato a noi? Mi hai mandato un bacio d’addio? Mi sembra di avere sentito qualcosa sulla mia guancia quella notte. Eri tu? Dimmi che eri tu.
Prima della rivoluzione khomeinista, Siamak Pourzand faceva il corrispondente per il giornale iraniano Keyahn. Tra le altre cose, aveva intervistato il presidente americano Richard Nixon e raccontato il funerale di John F. Kennedy. A un certo punto era diventato famoso per le recensioni sui film hollywoodiani, e aveva iniziato a scrivere di cinema anche per la prestigiosa rivista francese Cahiers du Cinema.
Con l’avvento del regime perse il suo lavoro al giornale, e iniziò a scrivere per riviste minori. Negli anni Novanta riemerse come parte della nuova opposizione che si era formata negli anni successivi alla morte di Khomeini e alla fine della guerra con l’Iraq. I servizi segreti iraniani iniziarono a seguirlo da vicino quando nel 1998 raccontò il funerale dei coniugi Darius e Parvaneh Forouhar, due intellettuali dell’opposizione che erano stati uccisi nel loro appartamento di Teheran. La sua cronaca telefonica fu trasmessa in diretta dalla KRSI, radio iraniana con base a Los Angeles.
Nel 2001 fu catturato dai servizi segreti vicino alla casa di sua sorella, a Teheran. La sua famiglia non ebbe notizie di lui per due settimane, il suo luogo di detenzione rimase sconosciuto per mesi. Pourzand fu trasferito da un carcere all’altro per almeno un anno, senza avere la possibilità di ricorrere a nessuna forma di protezione legale. Fu interrogato e torturato ripetutamente, nonostante avesse già oltre settant’anni. Tentò il suicidio per la prima volta.
Il suo caso fu gestito dal giudice Sabiri Zafarqandi, famoso per la sua intransigenza e assoluta fedeltà al regime. Pourzand fu accusato di avere usato la stampa per congiurare contro il governo, di avere cospirato con i nemici stranieri, di avere collaborato con il vecchio apparato d’intelligence iraniana, di avere abusato di alcol e di avere avuto una relazione extraconiugale con la segretaria del Centro per la Cultura e per le Arti.
Costretto a confessare tutti questi reati, fu condannato a undici anni di carcere e 74 frustate. Ebbe un primo infarto in carcere nel maggio del 2002. A luglio fu costretto a confessare in televisione di fronte al giudice Zafarqandi e ad alcuni giornalisti che il governo si era preoccupato di istruire. Quando uno di questi fece una domanda che non era stata prevista, Pourzand si rivolse al suo avvocato d’ufficio e chiese: «Questa non era nell’elenco, che cosa devo dire?». Tentò il suicidio una seconda volta nello stesso mese, cercando di impiccarsi con i suoi pantaloni. Scarcerato per alcune settimane in occasione dell’arrivo di una delegazione europea a Teheran, fu riportato in prigione pochi mesi dopo, e costretto dal giudice Zafarqandi a firmare un libro scritto da altri.
Nel 2004 fu colpito da un secondo infarto, ma solo nel 2006 gli furono concessi gli arresti domiciliari. Quando Neda Soltan fu uccisa durante le proteste seguite alle elezioni del 2009, Pourzand disse a sua figlia Azadeh: «Hanno ucciso mia figlia». Il regime non ha voluto che il suo corpo fosse sepolto nel cimitero degli artisti, come aveva chiesto la famiglia, perché il suicidio viola i dettami dell’Islam. Ai familiari e agli amici è stata anche negata la possibilità di parlare al suo funerale. Metà del pubblico che ha partecipato alla cerimonia era formato da agenti dei servizi segreti.
La notizia della morte di Siamak Pourzand, avvenuta il 29 aprile, è arrivata soltanto in questi giorni all’attenzione della stampa mondiale, grazie agli sforzi delle figlie. Questa è la lettera che Azhed Pourzand ha scritto al padre tre giorni dopo la sua morte.
Davvero? Ti sei buttato dalla stessa finestra da cui ti affacciavi ogni giorno a immaginare il nostro ritorno? Quando venni a trovarti brevemente cinque anni fa con l’intelligence che non mi perdeva mai di vista, mi prendesti la mano, mi portasti a quella stessa finestra, mi mostrasti una scuola elementare dall’altra parte della strada e mi dicesti «È una scuola di bambine. Le senti mentre giocano con i loro veli? La mia piccola Azadeh è ancora tra loro. Sei sempre lì, a giocare nel cortile. Mi sveglio tutti i giorni e ascolto la loro cerimonia mattutina immaginando la mia piccola farfalla, Azi, tra loro». Poi ci mettemmo ad ascoltare e guardarle giocare e urlare nel cortile. Poi mi facesti promettere che un giorno anch’io avrei portato un bambino in questo mondo. Mi promettesti che saresti rimasto vivo finché non sarei entrata a Harvard, avessi scritto la nostra storia, avuto una bellissima famiglia e ti avrei portato un nipotino con cui giocare così non saresti stato più solo e non ti saresti più annoiato. Allora ci siamo messi a ridere e io ti ho detto: «Papà, lo chiamerò Siamak». E abbiamo sorriso. «Ma ora è troppo presto per pensare a queste cose», mi dicesti «voglio soltanto che tu sappia che non vedo l’ora di vedere il piccolo bambino di Azadeh e che aspetterò fino a quel giorno, se Dio vorrà, e mi manterrò in salute finché non saremo di nuovo insieme».
Che cos’è successo, Siamak Pourzand? Mi avevi promesso che avresti aspettato su quel balcone. E poi non hai potuto aspettare più. Non ti biasimo, nemmeno per un secondo. Avevi tutto il diritto di cercare la libertà in questo modo. […] Ho sentito che ti sei aggrappato al balcone per un secondo prima di lasciarti cadere. Era perché te n’eri pentito? O perché per un secondo, mi hai sentito bussare alla porta? Il pensiero di te aggrappato per un secondo a quel balcone mi sta uccidendo. Mi manchi così tanto, papà. Mi sei mancato per anni. Ma almeno potevo prendere il telefono e sentire la tua voce. E adesso? Chi mi chiamerà per lasciarmi quei buffi messaggi tutti i giorni? Chi? Davvero te ne sei andato per sempre? Non posso crederci. È successo davvero? Davvero ti sei buttato da quella finestra? Che cos’hai pensato mentre cadevi dal sesto piano fino al momento in cui la terra ha colpito la tua testa? Hai pensato a noi? Mi hai mandato un bacio d’addio? Mi sembra di avere sentito qualcosa sulla mia guancia quella notte. Eri tu? Dimmi che eri tu.
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