Articolo 21 - Editoriali
Chi potrà mai dire cosa prova un suicida? Qualcuno sa forse, cosa prova un pipistrello? Al di là del politicamente corretto
di Claudio Zarcone
«ESISTONO DUE LIBERTÀ INCONDIZIONATE: LA LIBERTÀ DI PENSARE E LA LIBERTÀ DI MORIRE, CHE È LA STESSA DI VIVERE»
(Norman Zarcone 18.1.1983 – 13.9.2010)
«La filosofia non ha soltanto per origine ma anche per fine l’inquietudine, e non la tranquillità»
Lev Šestov
«La vita è una sorgente di gioia; ma dove la gentaglia beve con gli altri, là tutte le fonti sono avvelenate»
Friedrich Nietzsche
Qualcuno potrebbe mai pensare che io, padre di un suicida, possa celebrare l’elogio del suicidio?
Qualcuno riesce minimamente a immaginare come si è dilaniati da fantasmi dai mille volti e dalle apparenze orripilanti, quando ti muore un figlio?
Quindi non farò un elogio del suicidio, ma non voglio neanche che questo gesto venga banalizzato alla semplice formula di “mal di vivere”. Sarebbe un errore strategico e un’offesa alla solennità del gesto, quantunque controverso. D’altronde, alzi la mano chi non è stato mai sfiorato almeno una volta, dall’idea del suicidio in determinate situazioni di disagio psico-fisico, esistenziale o di particolari drammi che investono il proprio privato personale. Dicevo: non voglio celebrarne l’elogio, ma ad un tempo, non voglio che una questione così delicata possa essere derubricata a mero insano gesto, per dirla con i cronisti, o con certa psicologia a buon mercato. Quindi, osiamo al di là dell’odioso politicamente corretto, autentica “peste liberticida”.
Ai cosiddetti “fautori della vita” a tutti i costi, a coloro che hanno contrapposto a Norman (e al mistero della libertà individuale), chi invece sceglie di restare – per essi i “veri eroi” – dico che ci vogliono più coglioni a lanciarsi dal settimo piano di Lettere, che a restare, magari vivendo una vita di compromessi, disumanizzazioni, reificazioni, e rinunce al “codice della propria identità”.
Ripeto, senza peraltro voler istigare al suicidio, che resta sempre una soluzione di difficile comprensione e accettazione dal senso comune. Ma vi garantisco che mio figlio il suo gesto non lo ha compiuto per trarne un vantaggio personale – a quanto pare i morti non godono di vantaggi terreni – bensì per lanciare un messaggio straziante; per gridare il suo sordo “no” ad un sistema di guarentigie che avvelena i sogni dei nostri giovani. Le loro speranze. Le loro ambizioni. Il loro futuro. Mio figlio ha detto “no” alle genuflessioni e alle sodomizzazioni. Poi ciascuno di noi è libero di pensare quel che crede, è chiaro.
Ogni suicidio è diverso da un altro, dicevo, le motivazioni sono diverse, i contesti culturali sono diversi, le modalità sono diverse. Ridurre il suicidio allo schema di “mal di vivere”, a mio avviso, non ci spiegherà perché molti giovani scelgano tale via lacerante, per se stessi e per le loro famiglie.
Lo scrittore Hugo von Hofmanstal addirittura morì di apoplessia durante il funerale del proprio figlio, morto suicida.
Tanti scrittori e pensatori illustri sono morti con la propria mano, gente che malgrado tutto aveva dei resoconti culturali fortissimi con i quali confrontarsi e attraverso i quali evitare di autoinfliggersi la morte.
Cito un passo di Camus tratto dal saggio Il mito di Sisifo, il quale recita: «Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta è rispondere al quesito fondamentale della filosofia».
Empedocle – racconta il mito – si gettò nell’Etna per amore di conoscenza, Tito Lucrezio Caro morì suicida, Seneca morì suicida.
Georg Trakl, Otto Weininger, Wladimir Majakovskij , Carlo Michelstaedter, Drieu La Rochelle, Yukio Mishima morirono suicidi. E non stiamo parlando di giovani invaghiti dal “velinismo” televisivo o infatuati dal mito di Kurt Cobain, il leader dei “Nirvana”, anch’egli morto suicida.
Stiamo parlando di fior di pensatori e letterati, che ciascuno, per vie diverse, per motivazioni diverse, volle uscire fuori dal mondo per sconfiggere gli eventi con un terribile atto di decisione.
Egesia di Cirene, filosofo di scuola greca vissuto intorno al IV/III secolo a.C. si rese conto che la felicità, per quanto anelata non fosse mai raggiungibile. Siccome “l’anima soffre e si turba col corpo e la fortuna impedisce di conseguire ciò che si spera”, pare che per lui, l’unico tentativo di cercare la felicità fosse la morte. “La vita è un bene per lo sciocco, è indifferente per il sapiente” diceva, nello scritto “Colui che si lascia morire di fame”, conosciuto anche come “Il suicida”.
Per tale ragione venne definito “peisithanatos”, ossia “persuasore di morte” (o “avvocato della morte”).
Chi è nel nostro e nello scorso millennio il “peisithanatos”? Nessuno potrà mai dirlo con certezza.
Ma io, da piccolissimo studioso quale sono, posso pensare al mondo patinato e deresponsabilizzato della pubblicità e della televisione, ad una società che non comunica più malgrado l’eccesso di comunicazione mass-mediatica. Un giovane un giorno può accorgersi che la vita non è quella felice della pubblicità del Mulino Bianco e della pasta Barilla, ma che essa è fatta di contraddizioni, lacerazioni e delusioni.
Ma non vale per tutti lo stesso teorema: può valere un amore impossibile e l’aspirazione a ricongiungersi col tutto primigenio (Goethe ci ha lasciato pagine memorabili con “I dolori del giovane Werther” ma mille altri libri parlano del suicidio, che si fa li proibiamo?), può essere atto decisionale a causa di una bocciatura a scuola che avrebbe deluso i genitori, può anche essere determinante, a volte, quella banalizzazione che chiamiamo “mal di vivere” (ma non deve diventare un assioma), può essere scelta filosofica come predicava Egesia e si chiedeva Camus, può essere un umano, troppo umano problema economico o di crisi coniugale, o può anche essere un gesto di lancinante protesta: vi dice niente Jan Palach, il giovane cecoslovacco che si diede fuoco a Praga per protestare contro l’invasione dei carri armati sovietici nel 1968?
Vi sono, è ovvio, delle costanti, ma vi sono, credetemi, ve lo dice uno che piange quotidianamente il proprio figlio, troppe variabili indipendenti che portano a dispregiare il proprio corpo.
Voglio farvi un esempio. Il filosofo statunitense Thomas Nagel, nel 1974 scrisse un articolo/saggio che ancora oggi fa scuola: «Che cosa si prova ad essere un pipistrello?”
Eccolo qua in estrema sintesi: «Non serve cercare di immaginare di avere sulle braccia un'ampia membrana che ci consente di svolazzare qua e là all'alba e al tramonto per acchiappare insetti con la bocca; di avere una vista molto debole e di percepire il mondo circostante mediante un sistema di segnali sonori ad alta frequenza riflessi dalle cose; e di passare la giornata appesi per i piedi, a testa in giù, in una soffitta. Se anche riesco a immaginarmi tutto ciò (e non mi è molto facile), ne ricavo solo che cosa proverei io a comportarmi come un pipistrello. Ma non è questo il problema: io voglio sapere che cosa prova un pipistrello a essere un pipistrello. Ma se cerco di figurarmelo, mi trovo ingabbiato entro le risorse della mia mente, e queste risorse non sono all'altezza dell'impresa».
Cosa voglio dire con l’esempio di Nagel? Che noi potremo solo pensare, in base alla nostra coscienza soggettiva cosa prova un suicida ad essere un suicida, ma sarà sempre e ad ogni modo, un nostro punto di vista. Quello che ci sfuggirà sempre è il punto di vista individuale del suicida.
Quindi, eviterei semplificazioni e generalizzazioni, poiché il magma interiore che scorre nella mente di un aspirante suicida – mancando il presupposto di una conoscenza oggettiva della sua coscienza - non potremo mai conoscerlo del tutto.
Io piango mio figlio, come il vecchio Priamo pianse le spoglie di Ettore, un genitore, infatti, non dovrebbe mai sopravvivere ai propri figli. Lo piango di lacrime dal sapore del sangue versato dal mio povero ragazzo sul suolo della Facoltà di Lettere, per protestare contro coloro che gli stavano rubando i sogni. Ne avverto ancora l’odore pungente, di quel sangue dispersosi in mille rivoli sul selciato di Lettere. Non posso più andare a Lettere senza essere stordito da quell’odore acre che brucia le mie narici; un odore ormai permanente dentro il mio sistema olfattivo.
Per questo sono pieno di rabbia licantropesca, quando leggo che qualcuno lamenta che a mio figlio si sta dando troppa celebrità. Chi dice questo è inopportuno (e anche stronzo, se mi è consentito), dimentico del grande dolore che ha colpito la mia famiglia. Io, ne avrei fatto a meno di questa indesiderata “celebrità”. Ne avrebbe fatto a meno anche mio figlio, cui sono stati contrapposti, ancora, coloro che svolgono opera di volontariato: Norman il suo “volontariato” lo aveva fatto conseguendo due lauree con lode, e presto anche un dottorato di ricerca, studiando otto ore al giorno, diventando giornalista, suonando e componendo musiche, come quella dedicata a Falcone e Borsellino, praticando l’antimafia a Brancaccio, il nostro quartiere, lo stesso di don Pino Puglisi.
A mio figlio la celebrità non interessava, e non voleva fare il “tronista” dalla De Filippi o il partecipante al “Grande Fratello”. Lui era solo studio e ricerca, musica e passioni dalle molte forme. Lui era filosofia, il grande amore della sua vita e ad essa si voleva dedicare per quei 1100/1200 euro al mese dell’assegno di ricerca, se gliene avessero concesso la possibilità.
Infatti Norman non aspirava a posti di lavoro strapagati o a sottogoverni regalati dalla politica: ripeto, egli era solo filosofia. Era nato per questo. E per questo è morto. La sua grande dignità ed “etica del lavoro” egli le declinava, inoltre, facendo il bagnino d’estate in un circolo nautico di Palermo per 25 euro al giorno, dodici ore al giorno. E non certo perché in famiglia ci fosse un bisogno economico oggettivo, ma per una pura esigenza interiore di guadagnarsi qualche soldo col sudore della propria fronte. Questo è stato anche il suo “volontariato” civile in una società che divora i suoi figli migliori per paura che le intelligenze più pure, possano aiutare gli altri a destarsi dal torpore e dall’assopimento che sta comodo a chi manipola i gangli vitali del potere a tutti i suoi livelli. I Norman d’Italia sono “pericolosi”, in quanto messaggeri di ribellione. E dove vi è ribellione l’assuefazione scema, per cedere il posto a nuove concezioni di lotta e di conquista sociale. Chiedetevi come mai i “baroni” di Lettere col loro “tanfo di bottega”, si siano scagliati contro la memoria di mio figlio in diversi Consigli di Facoltà.
Chiedetevi come mai i giovani di Lettere abbiano iniziato una lotta, insieme a me, per ottenere l’intitolazione di un’aula, culminata il 4 maggio scorso nell’inaugurazione dello Spazio “Generazione Norman” all’interno della cittadella universitaria di Palermo. Una bella vittoria. Solo che a quell’inaugurazione è venuto appena un professore di Lettere, gli altri sentitisi sconfitti da quella lotta studentesca, non hanno partecipato, preferendo i loro sterili veleni ad una presenza dovuta, quantomeno sotto il profilo morale. Ma, d’altronde, si è mai visto un tacchino organizzare il cenone di Capodanno? I “baroni” hanno annusato da subito l’odore del “j’accuse” in quella lapide bronzea 60x80 esposta a futura memoria nell’edificio 19 della cittadella, ergo hanno disertato la manifestazione restando avviluppati in quell’atmosfera disgustante di autoreferenzialità.
Ma, vedete, la cosa più grave, è che anche gli studenti hanno disertato la manifestazione. Infatti, a parte quelli che hanno lottato per la memoria di Norman, gli altri hanno disertato l’inaugurazione insieme ai “baroni”: questo è un brutto sintomo. Vuol dire che ancora vi è troppa assuefazione a quel sistema di micropotere similmafioso, nauseabondo, che alligna nei nostri atenei; vuol dire che molti giovani non hanno ancora fatta propria la dimensione della lotta, preferendo l’acquiescenza ad una visione di impegno per scardinare decenni di sudditanza psicologica e fisica nei confronti di questi signorotti feudali, dei quali tutti conoscono tutto, ma sui quali un vero repulisti non è mai stato fatto. La magistratura, purtroppo, non è mai andata fino in fondo.
Per questo vi dico, ritornando al discorso iniziale sul suicidio, evitiamo giudizi sommari, banalizzazioni dei problemi e generalizzazioni come “mal di vivere”. Così come nessuno saprà mai cosa si prova ad essere un pipistrello, nessuno potrà capire mai cosa provi un suicida ad essere un suicida. Ve lo dice chi non smetterà mai più di piangere, che non smetterà mai di annusare l’odore del sangue sull’asfalto di Lettere. Il sangue di mio figlio. Il mio sangue, sangue mio…
Detto per inciso: anch’io ho subito la tentazione del suicidio per accompagnare mio figlio nel suo ultimo viaggio, però ho deciso di lottare perché la memoria di Norman non cada nell’oblio. Aiutatemi, se potete, in questa missione.
(Norman Zarcone 18.1.1983 – 13.9.2010)
«La filosofia non ha soltanto per origine ma anche per fine l’inquietudine, e non la tranquillità»
Lev Šestov
«La vita è una sorgente di gioia; ma dove la gentaglia beve con gli altri, là tutte le fonti sono avvelenate»
Friedrich Nietzsche
Qualcuno potrebbe mai pensare che io, padre di un suicida, possa celebrare l’elogio del suicidio?
Qualcuno riesce minimamente a immaginare come si è dilaniati da fantasmi dai mille volti e dalle apparenze orripilanti, quando ti muore un figlio?
Quindi non farò un elogio del suicidio, ma non voglio neanche che questo gesto venga banalizzato alla semplice formula di “mal di vivere”. Sarebbe un errore strategico e un’offesa alla solennità del gesto, quantunque controverso. D’altronde, alzi la mano chi non è stato mai sfiorato almeno una volta, dall’idea del suicidio in determinate situazioni di disagio psico-fisico, esistenziale o di particolari drammi che investono il proprio privato personale. Dicevo: non voglio celebrarne l’elogio, ma ad un tempo, non voglio che una questione così delicata possa essere derubricata a mero insano gesto, per dirla con i cronisti, o con certa psicologia a buon mercato. Quindi, osiamo al di là dell’odioso politicamente corretto, autentica “peste liberticida”.
Ai cosiddetti “fautori della vita” a tutti i costi, a coloro che hanno contrapposto a Norman (e al mistero della libertà individuale), chi invece sceglie di restare – per essi i “veri eroi” – dico che ci vogliono più coglioni a lanciarsi dal settimo piano di Lettere, che a restare, magari vivendo una vita di compromessi, disumanizzazioni, reificazioni, e rinunce al “codice della propria identità”.
Ripeto, senza peraltro voler istigare al suicidio, che resta sempre una soluzione di difficile comprensione e accettazione dal senso comune. Ma vi garantisco che mio figlio il suo gesto non lo ha compiuto per trarne un vantaggio personale – a quanto pare i morti non godono di vantaggi terreni – bensì per lanciare un messaggio straziante; per gridare il suo sordo “no” ad un sistema di guarentigie che avvelena i sogni dei nostri giovani. Le loro speranze. Le loro ambizioni. Il loro futuro. Mio figlio ha detto “no” alle genuflessioni e alle sodomizzazioni. Poi ciascuno di noi è libero di pensare quel che crede, è chiaro.
Ogni suicidio è diverso da un altro, dicevo, le motivazioni sono diverse, i contesti culturali sono diversi, le modalità sono diverse. Ridurre il suicidio allo schema di “mal di vivere”, a mio avviso, non ci spiegherà perché molti giovani scelgano tale via lacerante, per se stessi e per le loro famiglie.
Lo scrittore Hugo von Hofmanstal addirittura morì di apoplessia durante il funerale del proprio figlio, morto suicida.
Tanti scrittori e pensatori illustri sono morti con la propria mano, gente che malgrado tutto aveva dei resoconti culturali fortissimi con i quali confrontarsi e attraverso i quali evitare di autoinfliggersi la morte.
Cito un passo di Camus tratto dal saggio Il mito di Sisifo, il quale recita: «Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta è rispondere al quesito fondamentale della filosofia».
Empedocle – racconta il mito – si gettò nell’Etna per amore di conoscenza, Tito Lucrezio Caro morì suicida, Seneca morì suicida.
Georg Trakl, Otto Weininger, Wladimir Majakovskij , Carlo Michelstaedter, Drieu La Rochelle, Yukio Mishima morirono suicidi. E non stiamo parlando di giovani invaghiti dal “velinismo” televisivo o infatuati dal mito di Kurt Cobain, il leader dei “Nirvana”, anch’egli morto suicida.
Stiamo parlando di fior di pensatori e letterati, che ciascuno, per vie diverse, per motivazioni diverse, volle uscire fuori dal mondo per sconfiggere gli eventi con un terribile atto di decisione.
Egesia di Cirene, filosofo di scuola greca vissuto intorno al IV/III secolo a.C. si rese conto che la felicità, per quanto anelata non fosse mai raggiungibile. Siccome “l’anima soffre e si turba col corpo e la fortuna impedisce di conseguire ciò che si spera”, pare che per lui, l’unico tentativo di cercare la felicità fosse la morte. “La vita è un bene per lo sciocco, è indifferente per il sapiente” diceva, nello scritto “Colui che si lascia morire di fame”, conosciuto anche come “Il suicida”.
Per tale ragione venne definito “peisithanatos”, ossia “persuasore di morte” (o “avvocato della morte”).
Chi è nel nostro e nello scorso millennio il “peisithanatos”? Nessuno potrà mai dirlo con certezza.
Ma io, da piccolissimo studioso quale sono, posso pensare al mondo patinato e deresponsabilizzato della pubblicità e della televisione, ad una società che non comunica più malgrado l’eccesso di comunicazione mass-mediatica. Un giovane un giorno può accorgersi che la vita non è quella felice della pubblicità del Mulino Bianco e della pasta Barilla, ma che essa è fatta di contraddizioni, lacerazioni e delusioni.
Ma non vale per tutti lo stesso teorema: può valere un amore impossibile e l’aspirazione a ricongiungersi col tutto primigenio (Goethe ci ha lasciato pagine memorabili con “I dolori del giovane Werther” ma mille altri libri parlano del suicidio, che si fa li proibiamo?), può essere atto decisionale a causa di una bocciatura a scuola che avrebbe deluso i genitori, può anche essere determinante, a volte, quella banalizzazione che chiamiamo “mal di vivere” (ma non deve diventare un assioma), può essere scelta filosofica come predicava Egesia e si chiedeva Camus, può essere un umano, troppo umano problema economico o di crisi coniugale, o può anche essere un gesto di lancinante protesta: vi dice niente Jan Palach, il giovane cecoslovacco che si diede fuoco a Praga per protestare contro l’invasione dei carri armati sovietici nel 1968?
Vi sono, è ovvio, delle costanti, ma vi sono, credetemi, ve lo dice uno che piange quotidianamente il proprio figlio, troppe variabili indipendenti che portano a dispregiare il proprio corpo.
Voglio farvi un esempio. Il filosofo statunitense Thomas Nagel, nel 1974 scrisse un articolo/saggio che ancora oggi fa scuola: «Che cosa si prova ad essere un pipistrello?”
Eccolo qua in estrema sintesi: «Non serve cercare di immaginare di avere sulle braccia un'ampia membrana che ci consente di svolazzare qua e là all'alba e al tramonto per acchiappare insetti con la bocca; di avere una vista molto debole e di percepire il mondo circostante mediante un sistema di segnali sonori ad alta frequenza riflessi dalle cose; e di passare la giornata appesi per i piedi, a testa in giù, in una soffitta. Se anche riesco a immaginarmi tutto ciò (e non mi è molto facile), ne ricavo solo che cosa proverei io a comportarmi come un pipistrello. Ma non è questo il problema: io voglio sapere che cosa prova un pipistrello a essere un pipistrello. Ma se cerco di figurarmelo, mi trovo ingabbiato entro le risorse della mia mente, e queste risorse non sono all'altezza dell'impresa».
Cosa voglio dire con l’esempio di Nagel? Che noi potremo solo pensare, in base alla nostra coscienza soggettiva cosa prova un suicida ad essere un suicida, ma sarà sempre e ad ogni modo, un nostro punto di vista. Quello che ci sfuggirà sempre è il punto di vista individuale del suicida.
Quindi, eviterei semplificazioni e generalizzazioni, poiché il magma interiore che scorre nella mente di un aspirante suicida – mancando il presupposto di una conoscenza oggettiva della sua coscienza - non potremo mai conoscerlo del tutto.
Io piango mio figlio, come il vecchio Priamo pianse le spoglie di Ettore, un genitore, infatti, non dovrebbe mai sopravvivere ai propri figli. Lo piango di lacrime dal sapore del sangue versato dal mio povero ragazzo sul suolo della Facoltà di Lettere, per protestare contro coloro che gli stavano rubando i sogni. Ne avverto ancora l’odore pungente, di quel sangue dispersosi in mille rivoli sul selciato di Lettere. Non posso più andare a Lettere senza essere stordito da quell’odore acre che brucia le mie narici; un odore ormai permanente dentro il mio sistema olfattivo.
Per questo sono pieno di rabbia licantropesca, quando leggo che qualcuno lamenta che a mio figlio si sta dando troppa celebrità. Chi dice questo è inopportuno (e anche stronzo, se mi è consentito), dimentico del grande dolore che ha colpito la mia famiglia. Io, ne avrei fatto a meno di questa indesiderata “celebrità”. Ne avrebbe fatto a meno anche mio figlio, cui sono stati contrapposti, ancora, coloro che svolgono opera di volontariato: Norman il suo “volontariato” lo aveva fatto conseguendo due lauree con lode, e presto anche un dottorato di ricerca, studiando otto ore al giorno, diventando giornalista, suonando e componendo musiche, come quella dedicata a Falcone e Borsellino, praticando l’antimafia a Brancaccio, il nostro quartiere, lo stesso di don Pino Puglisi.
A mio figlio la celebrità non interessava, e non voleva fare il “tronista” dalla De Filippi o il partecipante al “Grande Fratello”. Lui era solo studio e ricerca, musica e passioni dalle molte forme. Lui era filosofia, il grande amore della sua vita e ad essa si voleva dedicare per quei 1100/1200 euro al mese dell’assegno di ricerca, se gliene avessero concesso la possibilità.
Infatti Norman non aspirava a posti di lavoro strapagati o a sottogoverni regalati dalla politica: ripeto, egli era solo filosofia. Era nato per questo. E per questo è morto. La sua grande dignità ed “etica del lavoro” egli le declinava, inoltre, facendo il bagnino d’estate in un circolo nautico di Palermo per 25 euro al giorno, dodici ore al giorno. E non certo perché in famiglia ci fosse un bisogno economico oggettivo, ma per una pura esigenza interiore di guadagnarsi qualche soldo col sudore della propria fronte. Questo è stato anche il suo “volontariato” civile in una società che divora i suoi figli migliori per paura che le intelligenze più pure, possano aiutare gli altri a destarsi dal torpore e dall’assopimento che sta comodo a chi manipola i gangli vitali del potere a tutti i suoi livelli. I Norman d’Italia sono “pericolosi”, in quanto messaggeri di ribellione. E dove vi è ribellione l’assuefazione scema, per cedere il posto a nuove concezioni di lotta e di conquista sociale. Chiedetevi come mai i “baroni” di Lettere col loro “tanfo di bottega”, si siano scagliati contro la memoria di mio figlio in diversi Consigli di Facoltà.
Chiedetevi come mai i giovani di Lettere abbiano iniziato una lotta, insieme a me, per ottenere l’intitolazione di un’aula, culminata il 4 maggio scorso nell’inaugurazione dello Spazio “Generazione Norman” all’interno della cittadella universitaria di Palermo. Una bella vittoria. Solo che a quell’inaugurazione è venuto appena un professore di Lettere, gli altri sentitisi sconfitti da quella lotta studentesca, non hanno partecipato, preferendo i loro sterili veleni ad una presenza dovuta, quantomeno sotto il profilo morale. Ma, d’altronde, si è mai visto un tacchino organizzare il cenone di Capodanno? I “baroni” hanno annusato da subito l’odore del “j’accuse” in quella lapide bronzea 60x80 esposta a futura memoria nell’edificio 19 della cittadella, ergo hanno disertato la manifestazione restando avviluppati in quell’atmosfera disgustante di autoreferenzialità.
Ma, vedete, la cosa più grave, è che anche gli studenti hanno disertato la manifestazione. Infatti, a parte quelli che hanno lottato per la memoria di Norman, gli altri hanno disertato l’inaugurazione insieme ai “baroni”: questo è un brutto sintomo. Vuol dire che ancora vi è troppa assuefazione a quel sistema di micropotere similmafioso, nauseabondo, che alligna nei nostri atenei; vuol dire che molti giovani non hanno ancora fatta propria la dimensione della lotta, preferendo l’acquiescenza ad una visione di impegno per scardinare decenni di sudditanza psicologica e fisica nei confronti di questi signorotti feudali, dei quali tutti conoscono tutto, ma sui quali un vero repulisti non è mai stato fatto. La magistratura, purtroppo, non è mai andata fino in fondo.
Per questo vi dico, ritornando al discorso iniziale sul suicidio, evitiamo giudizi sommari, banalizzazioni dei problemi e generalizzazioni come “mal di vivere”. Così come nessuno saprà mai cosa si prova ad essere un pipistrello, nessuno potrà capire mai cosa provi un suicida ad essere un suicida. Ve lo dice chi non smetterà mai più di piangere, che non smetterà mai di annusare l’odore del sangue sull’asfalto di Lettere. Il sangue di mio figlio. Il mio sangue, sangue mio…
Detto per inciso: anch’io ho subito la tentazione del suicidio per accompagnare mio figlio nel suo ultimo viaggio, però ho deciso di lottare perché la memoria di Norman non cada nell’oblio. Aiutatemi, se potete, in questa missione.
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