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Articolo 21 - CULTURA
“La cultura italiana e’ viva e vegeta”. Parola di Bruno Arpaia*
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di Pietro Nardiello

 “La cultura italiana e’ viva e vegeta”. Parola di Bruno Arpaia* Raggiungiamo telefonicamente Bruno Arpaia protagonista del Premio Asti d’Appello considerato, in pratica, una seconda chance sugli altri premi letterari italiani. Nel 1969 l’aveva vinto Calvino con le Cosmicomiche (!). Dagli anni 60 una pausa per essere ripreso tre anni fa su proposta di Paolo Conte. E’ un’intera città che legge, si confronta e vota : i soci dell’associazione promotrice, allievi delle scuole superiori, giudici togati e persino carcerati... eppure siamo in un Paese in cui si dice che la cultura sia morta.

Arpaia cos’è per lei il vuoto?
La fisica ci dice che, alle scale subatomiche, il vuoto non è il nulla, che è un mondo agitatissimo, pieno di campi, di energia, di particelle che si creano e subito dopo si annichilano. È, alle nostre scale umane, la riserva di energia a cui, con un colpo di reni che è proprio delle specie viventi, attingiamo quando pensiamo di non avere più risorse, quando crediamo che tutto sia perduto. Ed è, probabilmente, il luogo da cui proveniamo: forse l’universo esiste proprio perché esiste questo tipo di vuoto.

 
Ma noi possiamo dire di vivere immersi nel vuoto?
Noi siamo fatti di vuoto, di quel vuoto di cui parlavo. Se ingrandissimo miliardi di volte un nucleo atomico, per esempio quello dell’idrogeno, fino a farlo diventare grande come un pallone da calcio, l’elettrone che vi “gira” intorno si muoverebbe in uno spazio grande come una città. In mezzo, in quello spazio, c’è il vuoto. E siccome siamo fatti di miliardi di atomi, siamo fatti di quel vuoto.

Lei nel libro afferma che alla fine del 2000 si riteneva quasi possibile spiegare tutto mentre oggi ci siamo resi conto che conosciamo solo il 4% e il 96% è sconosciuto. Prima sbagliavamo oppure grazie alle ricerche abbiamo scoperto nuovi orizzonti o nuova materia da studiare?
Abbiamo fatto alcune scoperte fondamentali, derivate dalle osservazioni astronomiche. Prima abbiamo capito che doveva esserci una forma di «materia oscura», il 23 per cento dell’universo, con cui non interagiamo, che non possiamo vedere né sentire; poi, tredici anni fa, gli ultimi vincitori del Nobel hanno scoperto che l’universo non soltanto si espande, ma lo fa in maniera sempre più accelerata, sempre più veloce: dev’esserci una forma di energia , «oscura» anche questa, che in qualche modo lo «spinge» e che ne costituisce il 73 per cento. Ora si tratta di scoprire di cosa siano fatte questa materia e questa energia «oscure».

Quando ipotizza il grande esperimento con l’acceleratore di particelle di CERN di Ginevra lei lascia intravedere delle conclusioni che potevano anticipare i risultati degli ultimi esperimenti. E’ stata una felice intuizione o lei ha fatto delle previsioni basate su fonti di informazioni certe?
Purtroppo non ho fatto nessuna previsione, ma ho ipotizzato la possibilità di grandi scoperte, basandomi sui dati di fatto. In realtà, l’esperimento sui neutrini, diventato così famoso, è un esperimento collaterale a quelli di cui mi sono occupato. Per quanto riguarda Lhc siamo ancora in attesa dei risultati, perché ci vuole tempo per «leggere» quei milioni e milioni di dati. Ma anche lì sono sicuro che ci aspettano grandi sorprese ed eccitanti scoperte.

La considerazione che il  paradigma einsteiniano getti una luce unificante sulla materialità della massa e dell'energia e che, come si ipotizza nel libro in condizioni estreme possano trasformarsi nell’una o nell’altra, è ancora valida?
A quali punti di riferimento potremmo rifarci?

La relatività einsteiniana è ancora valida, confermata da quasi un secolo di esperimenti. Il problema, come scrivo nel romanzo, è che non si sposa con l’altro fondamento della fisica che conosciamo, la meccanica quantistica, strana e apparentemente assurda alle nostre scale, ma anch’essa confermata da migliaia di esperimenti. Il grande problema della fisica oggi è riuscire a conciliare queste due grandi e meravigliose teorie: se l’universo è uno, ci dovrebbe essere una sola teoria che ne dia conto, e non due.

Secondo lei è sempre valida l’affermazione di Primo Levi, “e’ impossibile fare una distinzione tra arte, filosofia e scienza”?
Assolutamente sì. Questa frattura tra le «due culture» è vecchia, ma non antica: risale più o meno alla metà del XIX secolo. È da allora, infatti, che la scienza ha iniziato a essere considerata un ambito separato dalla cultura, invece che una sua parte fondamentale. Il risultato è che oggi, nelle nostre società, si può essere considerati colti se si conoscono Dante, Mozart, Caravaggio o Platone, ma l’ignoranza su Einstein, Heisenberg o Darwin non viene ritenuta rilevante per determinare il nostro grado di cultura. E invece perfino la nostra vita di tutti i giorni, dai cellulari ai computer al Gps, è segnata dalla conoscenza scientifica (e non solo dalla tecnologia che ne deriva): vi siamo immersi, anche se non ce ne rendiamo conto. E del resto la scienza è solo un modo come un altro di spingersi alle frontiere della conoscenza, di esplorare i confini del nostro mondo, di ampliare la nostra cultura. Senza contare che, nel corso del XX secolo, la relatività e la quantistica hanno rivoluzionato il nostro universo e perfino il modo in cui pensiamo alla scienza stessa. Oggi la scienza, esattamente come l’arte, usa molta immaginazione, si occupa sia di verità sia di bellezza, è più incerta, indeterminata: più misteriosa. Insomma, come ha scritto John Banville, «a un certo livello, essenziale, l’arte e la scienza sono talmente vicine che è difficile distinguerle». Il grande fisico e cibernetico napoletano Eduardo Caianiello affermava: «Non esiterei a sostenere che la scienza è fatta di una mescolanza inestricabile di arte, tecnicismi e metodo». Qualunque scrittore degno di questo nome non esiterebbe a sostituire la parola “scienza” con “letteratura”, a dire lo stesso di un suo romanzo. Perciò, a dispetto del senso comune purtroppo affermatosi nell’ultimo secolo e mezzo o giù di lì, non sono poi tanto diversi gli occhi con cui gli scienziati e gli artisti guardano il mondo.

Cosa ne pensa del fenomeno italiano dei “cervelli in fuga all’estero”?
Perché siamo arrivati a questo punto? Sarà mai possibile assistere al percorso inverso?

 Penso che sia un disastro. Penso che, non investendo da anni nella ricerca e nella formazione, l’Italia si sia già da tempo giocata una bella fetta di futuro. E oggi questi nodi sono venuti al pettine: la crisi che ci colpisce dipende anche da questo. I nostri ricercatori sono costretti ad andare via per favoritismi, clientelismi, mancanza di fondi, mancanza di fiducia in loro. E il peggio è che, per converso, nessuno (checché ne pensi il ministro Gelmini) viene più a fare ricerca in Italia perché non trova le condizioni adatte. La ricerca è volano di crescita: o si inverte pesantemente la rotta e si investe nella ricerca, oppure siamo condannati a finire in serie C, o addirittura tra i dilettanti…

Concludiamo con una considerazione dedicata a questo premio?
Il premio Asti d’Appello è una delle tante conferme che questo Paese è ancora vivo, desideroso di speranza e di futuro. Che ha ancora voglia di fare, di pensare. La cultura italiana, a tutti i livelli, è viva e vegeta: ha solo bisogno di una classe dirigente che creda in lei e in chi la fa (dagli artisti agli intellettuali all’ultimo lettore), che la sostenga e non le metta addirittura i bastoni tra le ruote. Anche perché, come ho già detto prima, è la cultura il primo fattore di crescita di un Paese, il suo vero acceleratore, il suo biglietto da visita all’estero. Purtroppo abbiamo avuto un ministro dell’Economia che ha detto che «con la cultura non si mangia»…

*Arpaia è scrittore e giornalista, autore de "L'energia del vuoto" già vincitore del Premio Stresa ora in concorso per il Premio Asti d'Appello

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