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Articolo 21 - Editoriali
I voltafaccia dellâ??Onu e la crisi del Darfur
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di Antonella Napoli

I voltafaccia dell’Onu e la crisi del Darfur

In Darfur la guerra è finita. Almeno così afferma Martin Luther Agwai, comandante uscente del contingente Unamid. Perché, allora, continuano a susseguirsi notizie di bombardamenti (l’ultima incursione qualche settimana fa nei dintorni di Jebel Moon, città controllata dal Jem, nel West Darfur) e di attacchi mortali che coinvolgono i gruppi di ribelli ma anche la popolazione civile?
Diciamo che se la guerra - ovvero l’azione militare (a cui probabilmente si riferisce Agwai) che vede contrapposte fazioni in conflitto nella regione sudanese - è finita, non si può certo parlare di pace.
Se è vero che recentemente non sono stati registrati veri e propri  combattimenti, il ristabilimento della giustizia e dell'ordine sociale nell’area è ben lontano.
Lo stesso comandante della forza di peacekeeping in Darfur ha ricordato il proliferare di feroci episodi di banditismo e di violenza nei confronti degli sfollati, che cercano rifugio nei campi profughi, e degli operatori delle organizzazioni non governative ancora presenti nella regione (basti pensare alle due volontarie di Goal, una ong irlandese, rapite il 3 luglio a Kutum e ai due peacekeepers della missione Onu – Ua prelevati dalle loro abitazioni a Zaligeri ancora nelle mani dei sequestratori).
E la crisi umanitaria? Beh, non arretra anzi la situazione peggiora giorno dopo giorno. I dati sono inconfutabili: il World Food Program lancia continui appelli per chiedere fondi che coprano i deficit alimentari in vaste zone del Sudan e i bollettini della programmazione umanitaria delle Nazioni Unite parlano ancora di ‘risposta a breve termine’ nelle aree che erano coperte dalle 13 ong cacciate dal Darfur dopo l’incriminazione del presidente Omar Al Bashir.
Le carenze alimentari e sanitarie, per non parlare della sicurezza dei circa 3 milioni di sfollati ammassati nei campi allestiti in tutta la regione e lungo il confine con il Chad e la Repubblica Centrale Africana, si sono acuite e gli sforzi di Ocha, il Coordinamento degli aiuti internazionali, non sono ancora riusciti a supplire adeguatamente all’operato delle organizzazioni espulse. 
Eppure il Darfur sembra non essere più un’emergenza anche perché il vicino Sud Sudan (dove è in atto dopo una guerra ultra ventennale un processo di pace alquanto instabile), in vista del referendum che dovrebbe portare all’indipendenza dello Stato, è una polveriera pronta ad esplodere.
La crisi in atto dal febbraio del 2003 in Darfur, e che secondo stime Onu ha causato 300mila vittime, non è più argomento ‘all’ordine del giorno’ nell’agenda dei potenti della terra – se mai lo è stato - a cominciare dall’amministrazione americana sulla quale si erano riposte grandi aspettative. Le stesse Nazioni Unite, che poco meno di un mese fa presentavano un rapporto dell’inviato speciale dell' ONU per i diritti umani in Sudan, da cui emergeva che le violenze e le uccisioni su larga scala nel Paese, dal Sud Sudan al Darfur, non si erano arrestate (‘nel periodo da agosto 2008 ai primi di giugno di quest'anno, numerosi bombardamenti hanno colpito la regione del Darfur, come i centri di Umm Sauunna, 24 km a ovest di Haskanita, e Shawa, a sud di El Fasher, spesso in maniera indiscriminata, senza alcuna distinzione tra postazioni ribelli, dimore private e strutture di accoglienza’ dal blog Italians for Darfur), oggi ridimensionano la situazione affermando che “si tratta per lo più di problemi di sicurezza”.
Ma se a terrorizzare milioni di persone e a creare difficoltà a una missione congiunta Onu – Ua che, almeno su carta, conta 26mila caschi blu, è solo qualche gruppo di banditi, perché il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti sta valutando l'invio di consiglieri “per aiutare l’Unamid su questioni logistiche” (fonte Sudan Tribune)?

Alla fine di luglio l'inviato speciale del presidente Obama, Scott Gration, aveva riferito che per garantire una duratura interruzione delle ostilità tra le parti era necessaria la presenza sul territorio di una forza di intelligence specializzata e con capacità di monitorare e controllare il processo di pace nella regione.
L’Unamid deve affrontare una carenza di lunga data delle capacità aeree: la comunità internazionale si è dimostrata riluttante a fornire gli elicotteri essenziali per garantire la riuscita della missione.
Per denunciare lo stato delle cose un gruppo di associazioni e organizzazioni internazionali (tra cui Italians for Darfur) hanno presentato un documento che evidenzia, a due anni dall'approvazione della Risoluzione 1769 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che dava il via alla Forza ibrida dell' Unione Africana e dell’Onu in Darfur, i limiti e gli interventi necessari e improrogabili per assicurare una efficace protezione dei civili coinvolti nel conflitto.
“Il contingente di peacekeepers – si legge nel rapporto - sebbene sia riuscito in alcuni casi a migliorare le condizioni di sicurezza in ristrette aree della regione, paga il costante ostruzionismo del governo sudanese e la negligenza e irresponsabilità della comunità internazionale, che non riesce a fornire le basilari risorse logistiche fondamentali in un'area grande quanto la Francia”.
Se ciò non bastasse nei giorni scorsi i leaders del Justice and Equality Movement hanno annunciato che l'esercito sudanese si prepara a scagliare un nuovo attacco nel nord del Darfur. Il portavoce del Jem, Ahmed Hussein Adam, ha affermato che un contingente militare composto dal Sudan Liberation Army di Minni Minawi e da forze di opposizione fuoriuscite dal Ciad, si sta muovendo verso le loro postazioni in chiaro assetto di guerra.
Per chiudere, nel filo della tradizione del regime di Khartoum, le autorità sudanesi il 21 agosto hanno arrestato ventisette abitanti di un campo nel Darfur settentrionale che avevano manifestato il loro dissenso ai contenuti dell’accordo di pace del 2006, sottoscritto ad Abuja solo da una fazione dei ribelli.
Un leader del campo di Abu Shouk, nei pressi della capitale del Nord Darfur, El-Fasher, ha riferito al Sudan Tribune che Hussein Ishaq Sajo, il capo anziano della comunità, è tra le persone arrestate. La fonte che ha chiesto l'anonimato ha denunciato che il governo cerca di intimidire così gli sfollati e di scoraggiare qualsiasi opposizione al regime.
Se questi sono i presupposti per affermare che in Darfur, oramai, si possa parlare solo ‘di problemi di sicurezza’, la strada per dichiarare che la pace sia stata raggiunta è ancora molto lunga.
Antonella Napoli

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