Clicca qui per il nuovo sito di Articolo 21 »
Ricerca con Google
Web articolo21.info
 
 
Articolo 21 - Editoriali
Li soprani der monno vecchio... ovvero, delle riforme istituzionali di cui tanto si parla
Condividi su Facebook Condividi su OKNOtizie Condividi su Del.icio.us.

di Maurizio Calò e Fabrizio Ruggieri

LI SOPRANI DER MONNO VECCHIO
(di Giuseppe Gioacchino Belli)
C’era una volta un Re cche ddar palazzo
mannò ffora a li popoli st’editto:
- Io so’ io, e vvoi nun zete un cazzo,
sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto.

Io fo ddritto lo storto e storto er dritto:
pozzo vénneve a ttutti a un tant’er mazzo:
Io, si vve fo impiccà, nun ve strapazzo,
ché la vita e la robba Io ve l’affitto.

Chi abbita a sto monno senza er titolo
o dde Papa, o dde Re, o dd’Imperatore,
quello nun pò avé mmai vosce in capitolo.

Co st’editto annò er boja pe ccuriero,
interroganno tutti in zur tenore;
e, arisposero tutti: E’ vvero, è vvero.


COMMENTO

Il dibattito delle forze politiche e della società civile, in Italia, da decenni insiste per una revisione degli assetti costituzionali riuscendo a portare il dibattito, ripetutamente, alle soglie del successo senza, peraltro, mai varcarle.

Mentre si contempla lo scarso risultato di tanto e diffuso impegno, il sonetto che precede offre una lettura di straordinaria sintesi ed efficacia di quanto più semplici e lineari fossero le regole dello Stato in quell’epoca che precedette la Rivoluzione francese, da molti, nell’intimo più recondito, rimpianta e sospirata come aurea.

La riforma edittale promulgata dal re (mannò fora), vale a qualificare con immediatezza il carattere che distingue il rapporto tra i soggetti dell’intera collettività sociale: da una parte l’Autorità (io so io) e dall’altra parte il popolo (e voi nun zete un cazzo).

Quest’ultimo è inscritto in un destino di sudditanza (sori vassalli), di torpida ed ottusa passività (buggiaroni) e privo di reattanza (e zzitto) al quale si addicono i concetti esposti nelle due strofe successive.

Queste condensano, in pochi limpidi versi, l’architettura istituzionale caratteristica dello Stato assoluto. Vi ritroviamo, infatti, tutti i concetti base di tale esperienza storico–giuridica.

Si enuncia, innanzi tutto, la massima che descrive la latitudine del potere in termini così ampi, da renderlo atto a far deroga alle leggi di natura (Io fo ddritto lo storto e storto er dritto).

Sintesi, si diceva, tanto limpida da presentare per sbiadite le massime di rito, da sempre in uso nelle scuole di diritto costituzionale, per descrivere quello smisurato potere che suonano: “Exaequat quadrata rotundo”, ovvero: “Facit de albo nigrum”.

Si noti, anzi, che qui il potere è descritto come reversibile, in quanto capace non solo di esercitarsi nella direzione primaria di far ddritto lo storto, ma anche in quella di ritorno di rifar storto il raddrizzato. Come dire che il capriccio è il vero contenuto della potestà pubblica del sovrano che si dichiara, dunque, assai privatamente determinata nella manifestazione della sua assolutezza: ed infatti, cosa vi è di più intimo e personale del capriccio?

Posta tale estensione, ne derivano importanti corollari.

Innanzi tutto, poiché ogni potere il sovrano possiede, egli dispone del corpo dei suoi sudditi (pozzo venneve a ttutti) e così pienamente da poterli considerare non individualmente, ma per l’appartenenza ad un genus (un tanto ar mazzo) che, per di più, è di poco pregio, ove si consideri che in tal guisa si commerciano solo ortaggi di largo consumo. E’ escluso, dunque, ogni rilievo del singolo e questi esiste solo perché compreso nel genus di cui va a formare una porzione innominata.

Avanza, quindi, il secondo corollario di stretta consequenzialità. Infatti, se ogni potere compete al sovrano, deve competergli anche, ed innanzi tutto, quello dell’illecito che a lui è permesso così come il miracolo all’Iddio (Io, si ve fo impiccà nun ve strapazzo). Una deroga, dunque, più che una violazione. In altri termini, il re non ha la capacità giuridica dell’illecito.

Ancora una volta, la sintesi del poeta supera in efficacia la formula tralaticia che si fa risalire a Settimio Severo: “Il re non commette torto”. Formula che fu di grande e permanente successo se si considera che, ancora nell’opera del Verdi, il lascivo interesse del Duca di Mantova per la figlia di Rigoletto (che, infatti, nel libretto originario doveva chiamarsi Triboletto, proprio come uno dei vassalli buggiaroni) viene considerato dai cortigiani motivo di onore, e non di disonore, per la giovine.

Terzo pilastro dell’ordinamento costituzionale riassunto dall’editto, è che il potere politico abbraccia le dimensioni, pur tra loro remote, del religioso e del patrimoniale. Infatti, ai sudditi buggiaroni nulla residua e, quindi, nulla appartiene: neppure il bene più elementare della vita e, men che meno, i beni materiali che la confortano. L’una e gli altri appartengono, anch’essi, com’è ormai ovvio che sia, al sovrano e, se si trovano, in qualche misura, presso i sudditi, ciò avviene a titolo precario e contingente, ma mai gratuito perché la vita e la robba Io ve l’affitto.

Peraltro, si osserva che ancor oggi, si pensi all’orizzonte d’Albione, la proprietà immobiliare è considerata oggetto di sovrana concessione e prende il nome di real estate sempre temporanea. Così come i diritti di privativa, anch’essi oggetto di concessione, si chiamano royalties.

Alla descrizione rigorosamente tecnica del rapporto tra autorità e popolo, segue l’ammaestramento didattico conclusivo che perpetua nel futuro l’assetto dei rapporti magistralmente descritto dalle prime strofe.

Qui avviene la ricongiunzione all’esordio dell’editto: colui che non disponga dell’investitura sovrana - vuoi a titolo territoriale (il Re), vuoi a titolo universale secolare (l’Imperatore), vuoi a titolo universale spirituale (il Papa) - cioè colui che non s’identifichi nell’io so io, ma si riconosca nel vvoi nun zete un cazzo della prima strofa, vanamente si avventurerebbe ad esporre il pur minimo concetto (vosce in capitolo). Ciò, non tanto per l’inutilità della sua parola, quanto per assoluta carenza di legittimazione a pronunciarla (nun po’ avé…). Ritorna quindi, circolarmente, anche il silenzio (…e zzitto) che connota, sin dall’epigrafe, la condizione del secondo attore (il popolo) della descritta collettività.

L’escatocollo del provvedimento risale, infine, alle vette tecniche già riguardate. La somministrazione dell’edito ai sudditi avviene non per il tramite delle ordinarie fonti di cognizione, bensì per il tramite del mezzo più convincente, tradizionalmente affidato al boja, nella specie anche utilizzato a mo’ di Curriero. La volontà legislativa si traduce qui, piuttosto che in una dichiarazione, in una alternativa: adesione o esecuzione capitale! Toccando, in tal verso, punte di persuasione mai raggiunte da alcuna gazzetta ufficiale.

L’effetto del metodo diffusivo prescelto dal sovrano è immediato e straordinario, procurando l’insorgere di un’obbedienza incondizionata della generalità (tutti) nella quale è possibile riconoscere profili, se non di entusiasmo, certo di pieno consenso non disgiunto da una certa letizia che si scorge nel raddoppio della conferma (è vvero è vvero).
Peraltro, non si apprezza il senso di un’adesione simulata, dovendosi cogliere, invece e quanto meno, il riflesso di quella passività bovina che l’acutezza del re aveva mirabilmente colto appellando il suo pubblico “sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto.”.

Qui, potere esecutivo e normativo, veramente, non si distinguono e, per vero, non hanno ragione di venir distinti, una essendo la fonte di ogni potestà. E’, infatti, noto che una distinzione tra i poteri dello Stato interverrà solo nella Rivoluzione francese che l’attinse dall’opera del Montesquieu (L’esprit des lois) quale caposaldo teorico della triplice suddivisione dei poteri statuali. Tale suddivisione interverrà, cioè, solo in quella fase storica che gli animi non confessi di quelli che più sopra abbiamo ricordato, considera l’inizio della decadenza.

Il metodo riformatore descritto dal Belli supera per molti aspetti il dibattito istituzionale di cui si riferiva in apertura soprattutto quanto a brevità, linearità ed efficacia del percorso normativo. Siano queste qualità di monito al nostro legislatore nella sua opera di revisione costituzionale … seppur solo queste.

 

Letto 2649 volte
Dalla rete di Articolo 21