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Articolo 21 - Editoriali
Che bello sbagliarsi
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di Lorenzo Trombetta*

Piazza Tahrir è già sgombra. E’ tutto finito. Così un amico mi informava il 26 gennaio scorso. Ero appena arrivato al Cairo per seguire “gli eventi”. Se è già tutto finito – mi dissi – è inutile esser venuti. Tanto – pensavo mentre mi avvicinavo in auto al centro cittadino – c’era da aspettarselo: gli arabi non sono capaci di cacciare i loro dittatori. Le uniche “rivoluzioni”, quelle che la storiografia di regime chiama “rivoluzioni”, sono state quelle operate da giunte di militari contro altre giunte in divisa o contro monarchie inventate in epoca coloniale.
La “grande rivoluzione araba” (al-thawra al-arabiyya al kubra) del 1916 contro “gli oppressori turchi”, ricordata in quasi tutti i libri scolastici di storia dei Paesi arabi, era stata condotta da un manipolo di beduini armati e guidati dai servizi segreti britannici. Per non parlare della “rivoluzione degli ufficiali liberi” egiziana, che impiegò pochissimo tempo per tradire le aspettative non solo di un Paese ma di tutta l’allora unita nazione panaraba.
Mentre all’università studiavo la storia moderna e contemporanea di questo angolo di mondo, non volevo credere a quell’assistente portaborse di un professore che sosteneva che “il mondo arabo è morto”. Lo criticavo quando sosteneva che lui preferiva dedicarsi agli studi medievistici “perché la contemporaneità araba offre solo delusioni”.
Non lo ho mai ammesso, ma dopo più di dieci anni passati nel Levante arabo, col passare del tempo mi sono invece convinto a dare ragione a quell’assistente, ora diventato professore. Se non per qualche eccezione nel campo della cultura e dell’economia, le realtà politiche e sociali di questa parte di Mediterraneo mi hanno sempre più depresso, deluso, spesso nauseato, così come mi nausea e mi deprime lo squallore urbano dei quartieri “moderni” delle loro città.
“Il mondo arabo torna alla vita”, titolava invece un quotidiano libanese all’indomani della caduta del presidente egiziano Muhammad Hosni Mubarak, cacciato da milioni di egiziani che con tenacia sono rimasti in piazza per diciotto giorni. “Una nuova alba”, era l’apertura di un altro quotidiano.
Molta retorica, senza dubbio. Ma la sensazione è quella di esser tornati alla vita. Una mia collega dal Cairo mi ha scritto stamani che molti suoi amici egiziani le confidano, lontani dai microfoni di al Jazira, che ora, da quando sono riusciti a far cadere il regime, “dormono meglio”, “mangiano sentendo come la prima volta il sapore del cibo”. Non è forse una sorta di rinascita questa?
E chi lo avrebbe mai detto? Io non di certo. Io che il 26 gennaio, mentre mi avvicinavo a piazza Tahrir ripensavo a quanto avesse avuto ragione quell’assistente portaborse ora diventato professore. Ed ero rimasto scettico anche nei giorni seguenti, mentre ero testimone diretto degli “eventi”, della “rivolta”.
“Non chiamateci manifestanti, siamo rivoluzionari”, mi avevano detto più volte i giovani di Tahrir. Io annotavo sorridendo, ma dentro di me prendevo le distanze, mettevo le  virgolette. Rimanevo pieno di dubbi sulla loro reale capacità di reggere alla polizia, poi agli F-16, poi alle bande del regime, e alla fame a cui il potere di Mubarak sperava di ridurre quei ragazzi senza etichette politiche.
Ero scettico quando il 26 gennaio stesso assistevo ad un sit-in di sulle scale della sede del sindacato dei giornalisti. Gridavano “Vogliamo la caduta del regime” e mi stupivano sì per il loro coraggio (in Siria, pensavo, starebbero già tutti dentro le ruote delle torture in chissà quale segreta sotto terra), ma non avrei immaginato che da quello e da tanti altri sit-in “spontanei” si potesse arrivare ai mille cortei del Cairo, fino alla marea umana che ha dato la spallata decisiva a Mubarak.
Quando il pomeriggio del 28 gennaio dall’alto di un balcone osservavo la battaglia del ponte di Qasr an-Nil, che collega Zamalek a Tahrir, facevo il tifo per loro. Speravo che riuscissero a sfondare il muro di idranti, manganelli e pallottole di gomma (e forse anche vere) usate dalla polizia. Ma non ci riuscirono. E fu la prova che – ahimè – lo scetticismo era fondato. Già allora però cominciavo a percepire qualcosa di diverso.
Non lo riconoscevo a livello razionale ma in un certo senso lo sentivo sotto pelle: il mondo arabo, quel mondo arabo, non era morto. Non è morto. Quella tenacia non era, non è, di chi giace in fondo a un fosso. Ma è di chi vuole riemergere dal fosso in cui è stato spinto. E si dimena. E spacca il legno della bara. E rivolta la terra fino a veder la luce e a inspirare con tutto se stesso l’aria pura della sua prima vita. “Mi sento per la prima volta libero”, è quanto ha detto un altro amico egiziano alla mia collega che sta al Cairo.
“Noi da Tahrir non ce ne andiamo”, mi ha ripetuto almeno dieci volte Yasser, Muhammad, Rima, Noha, Ahmad e decine di quei ragazzi con cui mi sono fermato a parlare in quei giorni. Ma quanto resisterete? “La domanda – mi rispondevano – è quanto resisterà lui (Mubarak)”. E avevano ragione. Sapevano di avere ragione. Sapevano di aver infranto il muro della paura. E lo hanno infranto in mondovisione. Mentre altri giovani, ancora sotto terra, li sono stati a guardare.

* Dal Blog "Il Mondo di Annibale"

 

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