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Articolo 21 - Editoriali
Carcere: tra l’indifferenza si continua a morire. Lavoro: tra l’indifferenza è una strage
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di Valter Vecellio

La guerra in Libia, quello che accade nei paesi del Maghreb, la tragedia del Giappone…sono questi gli eventi che attirano e concentrano l’attenzione; così a notizie che già in condizioni “normali” si presta pochissima attenzione, di questi tempi si finisce con non darne nessuna. Ed è su alcune di queste notizie ignote e ignorate che ci si occupa oggi.  
   Si chiamava Mario Di Fonso. Aveva 35 anni. Era detenuto nel carcere di Pescara. Era detenuto dallo scorso settembre, arrestato nell’ambito di un’inchiesta per un presunto traffico di sostanze stupefacenti. L’altra mattina ha preso il suo lenzuolo,  ne ha ricavato una rudimentale corda, ha fatto un cappio, e così l’ha fatta finita. Si è preso la sua personale, definitiva amnistia.
  Come lui, dall’inizio dell’anno hanno fatto altri dodici detenuti: Altri venti sono morti per cause diverse, moltissimi per infarto. Quattro per cause da accertare. Si chiamavano Adel, Victor, Enzo, Giuseppe, Francesco, Michele, Jean-Jacques, Vasile, Raffaele, Gianluca, Jon, Ciprian, Gioffré, Salvatore, Antonino, Mamhoud, Michele, Brahim, Yuri, Salvatore… Di molti non sappiamo neppure il nome. Comunque non sappiamo perché erano in carcere, accusati di cosa, in attesa di giudizio o condannati definitivamente…nulla. Sappiamo solo che sono morti.
  Dalle carceri alla giustizia lumaca: è arrivato infatti dopo quarantun anni di attesa, il verdetto  della Cassazione su una 'epocale' vicenda giudiziaria nata il 5 luglio del 1969, giorno dello sfortunato incidente stradale nel quale un giovane ingegnere perde la moglie.
  Quarant’anni per il risarcimento dalla società assicuratrice. E’ stata necessaria una causa penale partita nel 1970 e conclusasi nel 1976, e una causa 'civile' iniziata con citazione del 16 dicembre 1978, passata due volte dal giudice di secondo grado ed altrettante, con oggi, al cospetto della suprema corte.
   La causa 'lumaca' da Pescara è andata a finire alla Corte di Appello dell’Aquila per slittare – dopo il primo approdo in Cassazione, nel 1993 – fuori regione, a Perugia, designata quale corte di rinvio. Negli uffici giudiziari umbri, tra conseguenze, prove presuntive e ricalcoli, la ‘stagnazione’ del procedimento è durata fino alla fine del dicembre 2007. In Cassazione il ricorso è pervenuto nel 2009, e qualche giorno c’è stato il deposito definitivo della sentenza 6357.
   L’ingegnere ha avuto complessivamente diritto a 22 milioni di vecchie lire – nemmeno rivalutabili perché l’avvocato aveva dimenticato di chiederlo – e sua figlia Maria Pia, rimasta orfana a quattro anni, ha ricevuto poco più di 250 milioni, sempre in vecchie lire. Ministro della Giustizia Angelino Alfano: se ci sei, batti un colpo!
   E ora altre morti, più propriamente una strage, quelle che chissà perché vengono chiamate “morti bianche”, i morti sul lavoro. Solo ieri, quattro morti e due feriti.
   La prima vittima Dante, a Fermo, era impegnato in lavori di scavo è rimasto travolto dal cedimento di un terrapieno che ha trasformato in una tomba la buca di 4-5 metri in cui era sceso. A Paolo Del Colle vicino Bari, la seconda vittima, Gennaro, muore dopo essere scivolato da una scala precipitando da un balcone al secondo piano di un edificio mentre montava una tenda da sole in un’abitazione privata.
   Raffaele era il titolare di una piccola impresa edile di Cesena. Sale su un ponteggio, perde  l’equilibrio e precipita, muore sul colpo battendo la testa sull’asfalto.
   Pietro, un altro piccolo imprenditore di Cerreto Guidi (Firenze), sale sul tetto del capannone del maglificio della moglie, scivola, l’uomo muore sul colpo. Prima parlavo di strage. Dall’inizio dell’anno oltre 100 morti, più di uno al giorno, domeniche e feste comprese. Quasi duecentomila infortuni, quasi cinquecento persone rimaste ferite o invalide. Ministro del Lavoro Maurizio Sacconi: se ci sei batti un colpo!

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