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L'Iran, i diritti umani, il ruolo italiano. Parla Pietro Marcenaro
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di redazione

L'Iran, i diritti umani, il ruolo italiano. Parla Pietro Marcenaro

L’Iran oggi è un paese in profonda trasformazione segnato da conflitti antichi e moderni.
In Iran oggi potremmo dire che si sovrappongono più conflitti. Non è una situazione inedita. Come in altri paesi anche qui assistiamo a un conflitto che ha le sue radici nella trasformazione della società, un conflitto tra ortodossia e modernizzazione. Non vorrei sembrare provocatorio accostando quello che accade in Iran a quello che è capitato anche nel mondo ebraico, ma la contraddizione tra ortodossia e modernità non è molto dissimile. Basti pensare ai classici della letteratura yiddish, alla storia di Tevye il lattaio di Sholem Aleichem, al rapporto fra padre e figlia in quel racconto, alla letteratura moderna, al rapporto tra le generazioni nel libro Danny l'eletto , di Chaim Potok.
Parliamo di conflitti antichi che hanno bisogno di tempo per approdare ai loro risultati, e che devono quindi essere in qualche modo liberi di trovare le loro soluzioni. Questa situazione infatti non risale alle elezioni dello scorso giugno, è preesistente. La società iraniana è da tempo in evoluzione: le donne rivendicano un ruolo nuovo, c'è stata un'esplosione della scolarità, i mezzi di comunicazione offrono dei modelli di vita diversi e a volte in contraddizione con quelli tradizionali, per cui nel tempo si sono posti problemi completamente nuovi. Anche la questione delle minoranze preesiste alla negazione dei loro diritti e alle elezioni del 2009. Su iniziativa del Partito radicale, in occasione dell'anniversario delle elezioni, abbiamo incontrato esponenti delle minoranze iraniane. C'erano arabi, azerbajgiani, beluchi... Lo dico per ricordare che in Iran coloro che parlano il Farsi sono la minoranza, per quanto importante.
Ebbene, questa dinamica molto complessa e delicata è stata bloccata forzosamente da una “stretta” delle classi dominanti e dello Stato. In sostanza, in Iran lo Stato si è interposto in una dinamica preesistente, stabilendo cosa era giusto e cosa sbagliato in forza delle leggi, imponendo una situazione di violenza e di repressione.
Quello che è successo nel 2009 è paragonabile ad un colpo di stato politico. Quel già contraddittorio e delicato meccanismo che è la costituzione iraniana, così come si è determinata nella rivoluzione del 1979 con la nascita della Repubblica Islamica (che sembra già una contraddizione in termini) ha subito un’ulteriore rottura.
Questo è il primo punto da chiarire. Bisogna infatti capire che non c'è solo il problema di un conflitto con Ahmadinejad, con Khamenei e con il gruppo al potere. C’è anche un conflitto più profondo, potremmo dire parallelo. Per questo è così importante avere uno sguardo sulle tendenze profonde della società iraniana.
Di qui l'invito al dialogo, che è appunto il riconoscimento che non si tratta semplicemente di fare i conti con un gruppo di usurpatori. Certo, Ahmadinejad e il suo gruppo introducono un elemento aggiuntivo di violenza, ma le questioni di cui parliamo necessitano di tempo per sciogliersi. Non bastano soluzioni sul piano della politica. L’evoluzione dei costumi, dei modelli di vita chiamano in causa un confronto nel profondo della società.
Purtroppo l’attuale assetto politico ha ridotto questa dinamica nella strettoria di una feroce contrapposizione. E questo può avere conseguenze gravi, che ci possono far tornare indietro.
Ne La gabbia d'oro, Shrin Ebady, tracciando la storia di una famiglia all'epoca del passaggio dallo Scià alla rivoluzione Komeinista, ben descrive il disastro che può provocare in una società un conflitto che comporta la rottura tra i padri e i figli, tra i fratelli e le sorelle, tra gli uomini e le donne.

A metà luglio sei stato il promotore di un appello di politici, intellettuali e giornalisti italiani, ma non solo, contro la condanna a morte di due carcerieri iraniani della prigione di Kahrizak. Di cosa si tratta?

Nell’appello sosteniamo, tra l’altro, che “La condanna a morte comminata da una corte militare iraniana alle due guardie carcerarie, delle quali non conosciamo neppure il nome, accusate di aver picchiato a morte Mohammad Kamrani, Mohsen Ruholamini e Amir Javadifar, tre giovani studenti arrestati in seguito alle manifestazioni di protesta dello scorso anno in Iran e deceduti per le violenze subite durante la detenzione nel carcere di Kahrizak, non è un atto di giustizia, né un atto di riparazione nei confronti delle vittime e delle loro famiglie, né, tanto meno, un atto di verità. Non è con nuova violenza che la giustizia avanzerà e le cose miglioreranno. […] Attraverso questo gesto vogliamo anche rendere onore alle vittime che hanno sofferto e sono morte praticando una protesta non violenta”.
Si tratta di due carcerieri condannati perché ritenuti colpevoli della morte di tre giovani studenti arrestati durante le manifestazioni. Non si tratta quindi di un giovane studente o di una donna ingiustamente accusata, né di un combattente per la democrazia o di una persona che vuole praticare le sue convinzioni religiose in libertà, né di un religioso che viene condannato a morte come apostata. Si tratta di due carcerieri, probabilmente dei torturatori, e probabilmente effettivamente colpevoli.
L’appello è importante innanzitutto per ribadire che nella lotta contro la pena di morte, se non si ha un’assoluta intransigenza nel prendere posizione contro qualsiasi condanna a morte, si finisce col compromettere l’intera battaglia. Questo è particolarmente vero in Iran, dove, com'è noto, le condanne a morte sono molto numerose. Dopo la Cina, l'Iran gareggia con l'Arabia Saudita per il maggior numero di condanne a morte e sicuramente nell'ultimo periodo la situazione di tensione ha fatto aumentare il numero di esecuzioni capitali.
In queste settimane è emerso il caso della condanna alla lapidazione della giovane donna accusata di adulterio, sentenza per il momento sospesa, vedremo cosa succederà… ma non è l’unico: altre donne in Iran sono state condannate alla stessa pena e aspettano la sentenza.
C’è anche chi è in attesa dell'esecuzione capitale per reati commessi quando erano minorenni.

Dicevi che oltre alla “posizione di principio”, c'è anche una ragione politica dietro a questo appello.
Sì ed è l'idea che non si può immaginare di affrontare la questione iraniana continuando in quella logica dell'occhio per occhio, che tanti disastri, nel corso dell'ultimo secolo, ha provocato in quel paese. In Iran bisogna rompere, e non alimentare, la spirale della violenza e imboccare al contrario la via del confronto e del dialogo.
Oltre che le ragioni di principio della lotta contro la pena capitale, è questo il senso dell’appello che è partito dalla commissione diritti umani del senato per chiedere che la condanna a morte comminata ai tre carcerieri di Kahrizak la scorsa settimana sia commutata in un’altra pena.
Chiediamo alle autorità iraniane di cessare la repressione, di liberare le migliaia di persone incarcerate, di porre fine alle condanne capitali, ma soprattutto di riconoscere la natura politica della crisi che scuote l’Iran, che in quanto tale può essere affrontata –lo ripeto- solo attraverso gli strumenti pacifici del dialogo, della discussione e del confronto tra posizioni diverse.
Si tratta di immaginare una possibilità di uscita pacifica dalla situazione.
Le firme che sono sotto questo appello che abbiamo reso pubblico (che sono di tanti iraniani, a partire da Shrin Ebady, per arrivare ad altre di grande rilievo), non si limitano a rappresentare un’opposizione al regime, segnalano anche la maturazione della consapevolezza che la strada della discussione e del dialogo, anche con gli esponenti di un regime così spregiudicato nell’uso della violenza come quello che oggi è al potere in Iran, è l'unico metodo che può permettere un’evoluzione positiva della situazione.

Naturalmente i firmatari iraniani vivono all'estero…
I sottoscrittori iraniani vivono all'estero, perché anche semplicemente prendere posizione contro la pena di morte in Iran è considerato un reato perseguibile con il carcere. Ci sono casi di persone che hanno avuto condanne fino a sei anni di reclusione per questa ragione. Abbiamo parlato in questi giorni con la madre di Neda, la studentessa uccisa durante le manifestazioni. Lei, che vive in Iran, ci ha detto che chiede giustizia e non vendetta. Penso che anche le famiglie dei tre giovani studenti uccisi dalle guardie carcerarie condannate alla pena di morte, condividano la medesima rivendicazione.

Nell’opposizione oggi in Iran ci sono tante anime. Puoi raccontare?
Nell'opposizione iraniana ci sono forze molto diverse tra loro e chi vuole sostenerla deve imparare a conoscerla e a rispettarla per quello che è. Sicuramente alla base delle varie istanze c'è un'esigenza di trasformazione profonda che riguarda soprattutto donne e giovani. E’ questa che muove tutto. Questa domanda di emancipazione, di conquista di nuove possibilità, di apertura di nuovi spazi non potrà essere fermata. E' cominciata l'era dell'individuo. Oggi le persone sanno di contare, c'è stato uno sviluppo enorme della scolarizzazione. Siamo di fronte ad uno sviluppo della società civile senza pari in quell’area. E poi c’è un dato demografico imprescindibile: i giovani sotto i trent'anni sono circa il 70 % della popolazione.
In Iran le basi di una possibile democrazia sono molto forti, più solide e più estese di quanto non siano in qualsiasi altro paese della regione e non a caso il conflitto è così articolato perché al fondo intacca le radici culturali e sociali nell'Iran. Le istanze di libertà, di emancipazione, di democrazia sono ormai ineludibili. Ma poi ci sono anche altre dinamiche in corso. Una riguarda il ruolo del clero e le divisioni che lo attraversano.
La religione sciita alla fine degli anni ‘50 e ‘60 ha conosciuto una serie di trasformazioni e poi c’è stata la rivoluzione komeinista, in seguito alla quale questa religione, che tradizionalmente si asteneva dalla politica, è diventata una religione “militante”. Di lì l’emergere del cosiddetto clero combattente.
Se in passato la religione vantava un netto distacco dal secolarismo e dal potere, a trent'anni dalla rivoluzione, si sono aperte una serie di riflessioni che coinvolgono tutto il clero e che hanno avuto un impatto molto forte nell'ultimo anno. Si dice che Ahmadinejad sia ancora in attesa delle congratulazioni per la sua elezione da parte del clero di Qom, che è la capitale religiosa del paese.
Infine è in subbusglio anche una parte dell'establishment, cioè di coloro che sono stati sconfitti alle elezioni: Moussawi, Karrubi e Khatami, una delle persone più autorevoli all'interno di questo mondo. Perché, intendiamoci, queste non sono persone che vengono dal di fuori, parlano e vengono “dal di dentro” del regime. Khatami è stato Presidente della Repubblica, Moussawi primo ministro e Karrubi portavoce del parlamento, insomma hanno avuto cariche molto importanti.
Allora, perché queste persone a un anno di distanza dalle elezioni continuano a resistere, nonostante la repressione durissima? Siamo di fronte a un atto di straordinario eroismo? Io credo che siamo di fronte a persone effettivamente molto tenaci e molto coraggiose. Ma non c’è dubbio che il loro coraggio viene dalla consapevolezza di avere dietro di sé dei “mondi”.
E aggiungo, per concludere su questo punto, che naturalmente l'esistenza di queste diverse forze nell’opposizione al regime dà luogo anche a diverse potenziali prospettive: il discorso sarebbe molto più complicato, ma per riassumere si può dire che c'è chi fondamentalmente pensa che sia possibile riformare democraticamente la costituzione attuale senza intaccare il carattere islamico della Repubblica, e chi invece ritiene che questo non sia più possibile.
Ma queste forze convivono all’interno del movimento verde. Entrambe queste visioni hanno contribuito alla costruzione di un'opposizione, e di uno spazio per una maggiore democrazia.
Anche a questo livello c'è dunque una dinamica, un processo molto complesso che non si può risolvere in un braccio di ferro, in un rapporto di forza.
Dopo la grande manifestazione di Ashoora nel dicembre del 2009, con i caduti per le strade, la repressione è stata così violenta che le strade si sono svuotate, ma questo non significa che il movimento non esista più. Il movimento più importante, quello che cambia la testa e i cuori delle persone, il loro atteggiamento verso la società e verso lo Stato, è molto potente,
La crisi politica in Iran è molto profonda, per questo non ha ancora trovato soluzione né da parte del potere, né da parte dell'opposizione.
Bisogna tenerne conto quando si accusa l'opposizione iraniana di non avere un suo progetto. In fondo il programma di questa opposizione non può che essere il risultato di una dinamica che per potersi sviluppare e manifestare ha bisogno di tempi lunghi. Non sopporta fonrzature.
Tutto questo per ribadire che chi oggi voglia aiutare la lotta per la libertà in Iran deve fare i conti con questa complessità, senza prestarsi a semplificazioni, o all’illusione di facili scorciatoie.
La richiesta di dialogo, di confronto politico, di riconoscimento dell'esistenza di una crisi che va affrontata con gli strumenti della nonviolenza, a mio avviso non è soltanto la forma più efficace di lotta contro la repressione, ma anche l’unica strada per contribuire a disegnare un futuro.

Che ruolo ha, in queste dinamiche, lo scenario internazionale?
Shrin Ebadi l'ha ripetuto molte volte: bisogna convincere la comunità internazionale ad abbandonare un’agenda politica in cui l'Iran trova posto solo alla voce nucleare. Anche dal punto di vista delle prospettive della sicurezza e della pace, è evidente che la democratizzazione dell'Iran è molto più importante. Naturalmente bisogna sapere che, se male affrontata, la questione nucleare potrebbe avere un effetto boomerang. Ma questo vale un po’ per tutti i popoli: se uno vuole interloquire con un paese deve farlo assicurandogli di riconoscere il ruolo che ha.
L'Iran è un grande paese, con una grande storia, con un grande peso, da tutti i punti di vista. Pensare di negare questo ruolo creerebbe una situazione inaccettabile per tutti, maggioranza e opposizione. Anzi, in particolare per l’opposizione. Si provi a immaginare cosa voglia dire essere conosciuti, indicati, accreditati come forza antinazionale, cioè come una forza che impedisce al proprio paese di andare avanti.
Bisogna ricordare alla comunità internazionale che non si può isolare la questione nucleare dal resto dei problemi. Pertanto nell’agenda devono essere ugualmente presenti la questione nucleare, ma anche quella della democrazia, della libertà e dei diritti umani. Ma questa è solo la prima considerazione. La seconda è che la “comunità internazionale” deve sapere che l'efficacia della sua iniziativa sulla questione nucleare dipenderà molto dalla trasparenza ed equità di quest’ultima. Guai a dar l’impressione che si tratti di un'iniziativa segnata dalla logica dei due standard, dei due pesi e due misure.
E’ già stata avviata la procedura di rinegoziazione del trattato di non proliferazione nucleare, ma c'è una domanda che resta sospesa e che è ineludibile: nel momento della definizione del trattato, l'Europa e gli Stati Uniti chiederanno di sottoscriverlo anche ai paesi che fino ad oggi non l'hanno sottoscritto? In altre parole, si chiederà anche al Pakistan, all'India e a Israele, potenze nucleari, di partecipare a regole comuni e a comuni controlli? Perché questo indubbiamente darebbe grande forza alla comunità internazionale in un confronto con l’Iran su questo punto.
Questo è un nodo cruciale perché, lo ripeto, la comunità internazionale deve dimostrare di saper gestire questa questione così delicata con equità e con una linea che sia indubbiamente ispirata ai principi e ai valori universali.
Se invece la linea risultasse quella dei due pesi e delle due misure, se si facesse dell’Iran un caso isolato, beh, credo che gli effetti sarebbero tutt’altro che positivi. Anche Israele deve sapere che non ci sono solo risposte da pretendere, ma anche risposte da dare...
Infine non dobbiamo dimenticare che esiste un'altra questione enorme che invece spesso si trascura: il peso che ancora oggi riveste nella vita concreta dell'Iran l'esperienza della guerra con l'Iraq, in cui sono morte un milione di persone. Un evento che ha segnato profondamente quel paese.
Noi certo non possiamo che muoverci nel campo delle nostre possibilità, che purtroppo non sono grandi. Però dobbiamo sempre partire dal quadro generale, con l’orizzonte in vista. Solo così, anche le cose modeste che riusciamo a fare possono contribuire a un’evoluzione positiva della situazione. La politica è questo.

 


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