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Articolo 21 - Editoriali
Da Sakineh alla rivolta contro la violenza sulle donne
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di Shukri Said*

La lapidazione per adulterio e concorso in omicidio minacciata a Sakineh non è medievale, è ancestrale. Escluso che sia comminata nel Corano, che non la prevede mai, essa è invece prevista dalla Bibbia per il caso di adulterio (Deuteronomio 22: 22, 23). Il Deuteronomio risale al VI-V secolo a. C., ma Cristiani ed Ebrei hanno abbandonato tale pratica duemila anni fa quando, come riporta il Vangelo (Giovanni 8, 1-11), scribi e farisei portarono a Gesù una donna colta in flagrante adulterio interrogandolo sulla lapidazione prescritta da Mosè. E Gesù, con la famosa frase “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”, impose l’abbandono della feroce pratica. Né Maometto, l’ultimo dei profeti, avrebbe voluto ripristinare una così barbara sanzione tanto limpidamente eliminata dal “suo” predecessore Gesù. In effetti la lapidazione per adulterio fu introdotta nell’Islam con un Hadith di Omar, successore di Maometto (Hadith Sahih Muslim vol. 3, libro 17, n. 4206) e non appartiene all’esperienza diretta del Profeta narrata nel Corano, l’unica da osservare, dove si prevedono (Sura 24, 2-3, “La Luce”) “solo” 100 frustate per l’adulterio conclamato da quattro testimoni, maschi e attendibili, che dichiarino di aver assistito alla penetrazione. Il che equivale alla punizione, non dell’adulterio in sé, bensì dell’oltraggio al pudore (previsto come reato anche in Italia) suscettibile di scuotere, con lo scandalo che ne consegue, le regole di una sana comunità. Infatti, la sanzione è eseguita dalla folla in un rito di espiazione dell’affronto subito dalla collettività. Invece rimane senza conseguenze l’adulterio “privato” in cui, al marito che accusa con apposita formula coranica, può rispondere pariteticamente la moglie discolpandosi mediante il ribaltamento della medesima formula pronunciata dal marito.
E’ inammissibile che nel terzo millennio siano considerati interlocutori della collettività internazionale paesi che ammettono ancora la lapidazione.
Invece il mondo reagisce a questa barbarie di regime solo quando si lega a un nome.
Salviamo Sakineh oggi come quando salvammo la nigeriana Amina Lawal nel 2003.
Queste reazioni internazionali, oltre che a salvare la vittima, mirano anche a sollevare dai sensi di colpa per il silenzio sui casi trascurati ma sicuramente esistenti. Perché chi deve impegnarsi per la salvezza della donna oppressa dai regimi canaglia, sono i governi di quei paesi dove l’opinione pubblica si mobilita e che di volta in volta si cimentano in compromessi per accontentare i loro elettori. Viene così l’idea che il nome della vittima trapeli in occidente non tanto per l’abilità informatica o informativa di qualche dissidente, quanto per la volontà del regime che della più efferata nefandezza permette il diffondersi della notizia proprio per conquistare il compromesso di cui ha bisogno.
Il caso di Sakineh è la dimostrazione di questo metodo adottato dal regime iraniano per uscire dall’isolamento diplomatico conseguente alla scelta nucleare.
E’ trapelata la sua condanna alla lapidazione per un reato di adulterio che, in occidente, non dà neppure più luogo alla separazione con addebito e, al movimento d’opinione sollevatosi contro il supplizio, si è risposto con una ulteriore condanna a 99 frustate per l’inconcepibile delitto di aver mostrato i capelli in una foto che, addirittura, non riproduceva neppure Sakineh.
E’ questo un chiaro pretesto del regime iraniano per rimanere al centro dell’attenzione di quella comunità internazionale che sarebbe veramente ora che si svegliasse.
La battaglia per i diritti umani non si fa saltuariamente.
Per una Sakineh di cui traspare la triste storia, ci sono nel mondo tante altre donne, troppe, che anonimamente subiscono violenze e torture intollerabili.
La violenza di tanti regimi è così antica e feroce che, anche per difendersene, le donne hanno mantenuto nei secoli le loro mutilazioni genitali, cioè la rinuncia alla sessualità.
Non possiamo convincerle ad abbandonare definitivamente quelle pratiche se non combattiamo i regimi che infieriscono sulle donne tutte le volte che si affaccia il loro diritto alla femminilità.
Se la democrazia non può essere esportata, come esperienze ancora in corso dimostrano, il suo seme può tuttavia essere piantato, ma va tenacemente coltivato.
Vogliamo che la battaglia per Sakineh sia l’ultima con un nome e che si apra finalmente la guerra alla violenza sulle donne ovunque, perché quella sulle donne è violenza capace di tutto e buona a nulla. Da estromettere dal Pianeta Terra con un formidabile rigurgito di dignità internazionale e non con intermittenti singhiozzi.

*Segretaria e Portavoce dell’Associazione Migrare, coautrice di RadioMigrante

 

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