di Stefano Corradino*
“Perché si deve morire per dire la verità?”. Così ha titolato il corsivo di Giuliana Sgrena sul Manifesto all’indomani dell’uccisione di Vittorio Arrigoni. “Un altro, uno di noi: pacifista, giornalista, volontario, uomo, donna, ridotto a merce di scambio, arma di guerra o solo di propaganda…”. E’ proprio la ricerca della verità il sentimento che ha animato e anima tanti giornalisti e blogger italiani. Vittorio Arrigoni e prima ancora Ilaria Alpi ed Enzo Baldoni hanno pagato questa ricerca con la vita. Donne e uomini che hanno scelto di raccontare ciò che osservavano muovendosi nelle zone di guerra per raccogliere informazioni. Rischiando la pelle. Avventurandosi da soli e non al seguito degli eserciti. La relazione tra guerra e informazione è stato uno dei temi dibattuti alla 29a edizione del Seminario della Tavola per la Pace che si è appena concluso ad Assisi.
Un rapporto che cambia connotati a partire dal primo conflitto nel Golfo. La prima “guerra televisiva”, deprivata di immagini cruente.
Cosa ricordiamo di quella guerra? Qual è il primo filmato che ci viene in mente? I militari uccisi? I civili morti sotto i bombardamenti? I palazzi dilaniati? Niente affatto, l’immagine che ricorre nel cervello è lo spettacolo pirotecnico ripreso dalla Cnn, i razzi che illuminano il cielo di Baghdad quasi fossero fuochi d’artificio. Una cronaca per immagini teatralizzante.
Ma l’informazione di guerra si serve anche di un linguaggio nuovo. “Manomette le parole”, parafrasando il bel saggio di Gianrico Carofiglio. Le operazioni diventano “chirurgiche”, le guerre “umanitarie”. Cambiano i nomi stessi delle missioni: da “Desert storm” a “Restore hope”. La scelta semantica non è casuale ma rigorosamente studiata: una terminologia meno violenta per manipolare l’opinione pubblica, rassicurarla, anestetizzarla. Tg e programmi televisivi usati come armi di distrazione di massa.
Oggi i telegiornali italiani, in gran parte, non si (pre)occupano della guerra e la politica estera è spesso fanalino di coda delle edizioni principali. Si parla di guerra solo e soltanto quando ci sono in gioco interessi economici. Ma non c’è traccia delle centinaia di conflitti che ogni giorno insanguinano le città, i villaggi, le strade di mezzo mondo. Guerre dimenticate. Quando poi prodigiosamente si decide di parlarne ad essere interpellati sono sempre gli stessi. Esponenti politici di governo, di maggioranza e di opposizione (meno) e generali. Ma mai un volontario, un operatore di pace, un medico…
Sul sito di Articolo21 abbiamo lanciato una campagna contro la censura. A preoccuparci non è solo e soltanto l’allontanamento di alcuni conduttori o autori sgraditi ma la cancellazione dei temi, e l’oscuramento dei soggetti sociali: i precari, i disoccupati, i difensori di diritti individuali e collettivi, i volontari, gli operatori di pace.
“Il 12 aprile 4 lavoratori (Abdel Halim e suo fratello Samir Abd al-Rahman Alhqra, 22 anni e 38 anni, Haitham Mostafa Mansour, 20 anni, e Abdel-Rahman Muhaisin 28 anni) sono morti per via del crollo di uno dei tunnel scavati dai palestinesi sotto il confine di Rafah”. E’ stato Vittorio Arrigoni a scriverlo sul suo blog appena prima di essere sequestrato e ucciso. Nessuno ci avrebbe informato…
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