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Le reti televisive della Rai: un guscio vuoto
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di Renato Parascandolo

Le reti televisive della Rai: un guscio vuoto Le polemiche che periodicamente investono la Rai hanno solitamente di mira due aspetti: l’assetto istituzionale e le nomine. Ciò che viene sistematicamente trascurato, come se fosse un problema politicamente ininfluente e secondario, è l’assetto organizzativo della Rai, basato sulla ripartizione in reti e testate distinte e contrapposte, un modello risalente alla riforma del 1975 che trovava la sua legittimazione nella necessità di garantire il pluralismo in regime di monopolio.
Nei primi anni Ottanta inizia la degenerazione di quel modello: si afferma la lottizzazione, un sistema di spartizione delle cariche dirigenziali fondato sull’appartenenza e affidabilità politica dei manager, a prescindere, quindi, dalle loro effettive competenze e capacità. Con il passare degli anni le reti e le testate si trasformano in piccoli “feudi” autarchici, in competizione politica tra loro e preoccupati di produrre soltanto per i propri palinsesti e di acquisire i diritti solo per la Tv generalista. Nascono nel frattempo nuovi media (televideo, satellite, internet, digitale terrestre, ecc.) e la Rai, sulla falsariga di quel modello, destina a ciascuno di essi, una direzione ad hoc o addirittura una società con tanto di presidente, direttore generale e consiglio di amministrazione. Quanto sia efficace un impianto organizzativo per media in un’azienda che, producendo contenuti, dovrebbe logicamente strutturarsi per generi (informazione, intrattenimento, fiction, cultura), dio solo lo sa; quel che invece, è evidente, è la proliferazione delle cariche dirigenziali, senza parlare dei numerosi consigli di amministrazione delle consociate.

Il risultato di questa babele organizzativa è un arcipelago di piccole monadi monomediali, senza porte e senza finestre, dove - se si esclude la fiction - tutti fanno tutto e... contro tutti: una pratica particolarmente diffusa fra le reti ma anche tra le società controllate, piccoli “bonsai” dotate di un nome imponente (Rai), ma destinate a rimanere nane perché costrette a svolgere, piuttosto che un’autentica missione imprenditoriale, il ruolo di serbatoio di riserva della lottizzazione, quella di seconda scelta.
E’ nella organizzazione per reti e per media, il vero brodo di coltura della lottizzazione. Un problema strutturale, dunque, ancor prima che culturale o di etica pubblica, che pesa sull’immobilismo del servizio pubblico almeno quanto la legge Gasparri che ha istituzionalizzato l’occupazione della Rai da parte dei partiti o, per meglio dire, di quel che ne resta.

Di tutte le strutture costrette a navigare a vista, le più obsolete e, soprattutto, le più anacronistiche, sono proprio le reti televisive, veri e propri gusci vuoti, funzionali ormai solo alla spartizione delle poltrone. Come si può pensare, infatti, che strutture di piccolo cabotaggio, come le strutture di programmazione delle reti, siano in grado di competere con aziende multinazionali, altamente specializzate nei programmi di intrattenimento? La creazione di nuovi format e la realizzazione di programmi di qualità richiede investimenti cospicui, creatività e figure professionali altamente specializzate, requisiti di cui sono privi, per forza di cose, le reti televisive.
Mancando la “massa critica” necessaria, in termini di budget e di risorse creative, per sostenere una produzione di qualità, le reti non possono far altro che acquistare i format – piuttosto che idearli e produrli – con la conseguenza di omologare sempre più l’offerta di servizio pubblico a quella delle Tv commerciali.

Organizzando la Rai per generi piuttosto che per media, si spianerebbe la strada a una creatività non più confinata al singolo programma ma estesa alle innumerevoli versioni intermediali dello stesso contenuto; si restituirebbe dignità professionale e autonomia decisionale a dirigenti e dipendenti, verrebbero meno gli obblighi di appartenenza e ci si libererebbe finalmente del falso dogma secondo cui l’obiettività è la somma di tre faziosità.
In conclusione, si affronti in tempi rapidi il problema del riassetto istituzionale della Rai creando intorno ad essa una “cintura sanitaria” che impedisca ai partiti di occuparla; ma, parallelamente, si metta mano alla sua riorganizzazione, poiché le grandi aziende non sono autobus la cui direzione di marcia è nelle mani di chi le conduce; piuttosto le si potrebbe paragonare ai tram; se insieme al ma­novratore non si cambia anche il tracciato delle rotaie, si potrà variare la velocità o il numero delle fermate, ma il percorso rimarrà sempre lo stesso.
Se il buongiorno si vede dal mattino, le prime dichiarazioni del Direttore Generale appena nominato, lasciano ben sperare; anche perché solo chi conosce perfettamente il funzionamento di una macchina può, con cognizione di causa, modificarne l’assetto per migliorarne le prestazioni.

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