Articolo 21 - ESTERI
Reza Hoda Saber, muore dopo nove giorni di sciopero della fame
di Marco Curatolo
Lo hanno lasciato agonizzare per una mattina intera, nel carcere di Evin, a Teheran. Reza Hoda Saber era in sciopero della fame dal 2 giugno scorso e quando ha cominciato ad accusare forti dolori al petto erano le 4.30 di venerdì 10: il nono giorno di digiuno. Per salvargli la vita sarebbe stato necessario trasferirlo subito in una struttura sanitaria adeguata, ma le autorità della prigione non hanno dato peso ai suoi lamenti. Secondo alcune testimonianze, riportate dal sito Kalemeh, sarebbe stato persino picchiato. Quando, sei ore più tardi, lo hanno ricoverato nell’ospedale Modarres, era troppo tardi. Il cuore di Hoda Saber non ha retto agli stenti del carcere e al ritardo nei soccorsi. La famiglia è stata avvisata con due giorni di ritardo e la notizia della sua scomparsa ha funestato il secondo anniversario delle elezioni presidenziali del 2009, la giornata in cui l’opposizione aveva invitato la gente a scendere in strada e a manifestare in silenzio.
Reza Hoda Saber, 52 anni, giornalista, traduttore, attivista politico e membro della Coalizione Melli-Mazhabi (nazionalista-religiosa) si trovava a Evin dal 23 luglio 2010. Era entrato in sciopero della fame subito dopo la morte di Haleh Sahabi, avvenuta in seguito alle percosse da lei subite durante il funerale del padre Ezatollah, leader della stessa coalizione. Hoda Saber aveva cominciato a digiunare con un altro prigioniero politico appartenente allo stesso gruppo, Amir Khosro Dalirsani con lo scopo di “impedire che simili atrocità abbiano a ripetersi contro gente indifesa”. Ma il suo fisico era già provato da almeno un decennio, l’ultimo, fatto di persecuzioni e di periodi più o meno lunghi di detenzione: nella migliore tradizione dei dissidenti iraniani, per i quali la strada tra Evin e casa è un percorso che diviene, per forza di cose, familiare.
L’odissea carceraria e giudiziaria di Reza Hoda Saber non è diversa da tante altre che abbiamo raccontato in queste pagine. Era stato arrestato per la prima volta nel gennaio 2000, quando lavorava per il settimanale Iran-e Farda (L’Iran di domani). Le autorità lo avevano rilasciato su cauzione un mese e mezzo dopo. Nell’aprile 2003 era stato condannato a dieci anni di prigione e di divieto dalla pratica di qualsiasi attività pubblica, con l’accusa di “complicità nella preparazione di un’associazione civile illegale”. Hoda Saber ricorse in appello, ma il giudizio di secondo grado non ebbe mai luogo. Eppure, a giugno di quello stesso anno Hoda Saber (con altri due membri della coalizione Melli-Mazhabi) fu arrestato di nuovo, senza alcuna motivazione legale, e venne posto per tre mesi in isolamento. Fu lo stesso Hoda Saber, in una lettera all’allora capo della magistratura Shahroudi, a raccontare il suo arresto: “Il 12 giugno 2003, vicino casa, e davanti ai miei attoniti vicini, sono stato circondato da cinque agenti della sicurezza e arrestato. Due giorni dopo, mi è stato chiesto di firmare un documento in cui si affermava che avevo partecipato ad una manifestazione organizzata all’università, e che ero stato arrestato lì”. Hoda Saber trascorse 150 giorni senza essere mai interrogato e senza essere informato delle accuse a suo carico.
La vigilia di Natale del 2005, in seguito a un lungo sit-in di protesta, la magistratura promise che avrebbe rilasciato Hoda Saber e gli altri due compagni di partito. Ma di lì a un mese li riprocessò, sicché egli venne condannato a otto mesi di prigione.
Il 23 luglio 2010, infine, l’ultimo arresto. Le autorità giudiziarie informarono la famiglia che in quel caso la detenzione aveva lo scopo di far scontare a Hoda Saber la pena a 10 anni comminata sette anni prima. E a poco valse far notare che il processo di appello contro quella condanna non aveva mai avuto luogo e che, perciò, il caso avrebbe potuto considerarsi ormai chiuso.
“La morte di Reza pone tre domande” – ha detto sua sorella Firouzeh Saber a Radio Farda. “Prima di tutto: perché si trovava a Evin? Era in carcere senza che ci fosse contro di lui una sentenza passata in giudicato. In secondo luogo: come è potuta accadere una tragedia come quella di Haleh Sahabi, che ha portato Reza allo sciopero della fame? Terzo: perché mai le autorità sono state così incaute e imprudenti che ci sono volute ore per portarlo in ospedale?”.
È il genere di domande a cui le autorità della Repubblica Islamica non rispondono mai. Preferiscono trafugare i cadaveri, imporre alle famiglie in lutto il silenzio, far svolgere i funerali in segreto.
Intanto a Evin, oggi, è giorno di visita. Chi c’è stato, riferisce che un numero compreso tra i 30 e i 40 prigionieri, indossando bracciali neri, ha cominciato uno sciopero della fame. In segno di protesta per la morte di Reza Hoda Saber.
Reza Hoda Saber, 52 anni, giornalista, traduttore, attivista politico e membro della Coalizione Melli-Mazhabi (nazionalista-religiosa) si trovava a Evin dal 23 luglio 2010. Era entrato in sciopero della fame subito dopo la morte di Haleh Sahabi, avvenuta in seguito alle percosse da lei subite durante il funerale del padre Ezatollah, leader della stessa coalizione. Hoda Saber aveva cominciato a digiunare con un altro prigioniero politico appartenente allo stesso gruppo, Amir Khosro Dalirsani con lo scopo di “impedire che simili atrocità abbiano a ripetersi contro gente indifesa”. Ma il suo fisico era già provato da almeno un decennio, l’ultimo, fatto di persecuzioni e di periodi più o meno lunghi di detenzione: nella migliore tradizione dei dissidenti iraniani, per i quali la strada tra Evin e casa è un percorso che diviene, per forza di cose, familiare.
L’odissea carceraria e giudiziaria di Reza Hoda Saber non è diversa da tante altre che abbiamo raccontato in queste pagine. Era stato arrestato per la prima volta nel gennaio 2000, quando lavorava per il settimanale Iran-e Farda (L’Iran di domani). Le autorità lo avevano rilasciato su cauzione un mese e mezzo dopo. Nell’aprile 2003 era stato condannato a dieci anni di prigione e di divieto dalla pratica di qualsiasi attività pubblica, con l’accusa di “complicità nella preparazione di un’associazione civile illegale”. Hoda Saber ricorse in appello, ma il giudizio di secondo grado non ebbe mai luogo. Eppure, a giugno di quello stesso anno Hoda Saber (con altri due membri della coalizione Melli-Mazhabi) fu arrestato di nuovo, senza alcuna motivazione legale, e venne posto per tre mesi in isolamento. Fu lo stesso Hoda Saber, in una lettera all’allora capo della magistratura Shahroudi, a raccontare il suo arresto: “Il 12 giugno 2003, vicino casa, e davanti ai miei attoniti vicini, sono stato circondato da cinque agenti della sicurezza e arrestato. Due giorni dopo, mi è stato chiesto di firmare un documento in cui si affermava che avevo partecipato ad una manifestazione organizzata all’università, e che ero stato arrestato lì”. Hoda Saber trascorse 150 giorni senza essere mai interrogato e senza essere informato delle accuse a suo carico.
La vigilia di Natale del 2005, in seguito a un lungo sit-in di protesta, la magistratura promise che avrebbe rilasciato Hoda Saber e gli altri due compagni di partito. Ma di lì a un mese li riprocessò, sicché egli venne condannato a otto mesi di prigione.
Il 23 luglio 2010, infine, l’ultimo arresto. Le autorità giudiziarie informarono la famiglia che in quel caso la detenzione aveva lo scopo di far scontare a Hoda Saber la pena a 10 anni comminata sette anni prima. E a poco valse far notare che il processo di appello contro quella condanna non aveva mai avuto luogo e che, perciò, il caso avrebbe potuto considerarsi ormai chiuso.
“La morte di Reza pone tre domande” – ha detto sua sorella Firouzeh Saber a Radio Farda. “Prima di tutto: perché si trovava a Evin? Era in carcere senza che ci fosse contro di lui una sentenza passata in giudicato. In secondo luogo: come è potuta accadere una tragedia come quella di Haleh Sahabi, che ha portato Reza allo sciopero della fame? Terzo: perché mai le autorità sono state così incaute e imprudenti che ci sono volute ore per portarlo in ospedale?”.
È il genere di domande a cui le autorità della Repubblica Islamica non rispondono mai. Preferiscono trafugare i cadaveri, imporre alle famiglie in lutto il silenzio, far svolgere i funerali in segreto.
Intanto a Evin, oggi, è giorno di visita. Chi c’è stato, riferisce che un numero compreso tra i 30 e i 40 prigionieri, indossando bracciali neri, ha cominciato uno sciopero della fame. In segno di protesta per la morte di Reza Hoda Saber.
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