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Articolo 21 - ESTERI
I segreti di Al Shabab
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di Shukri Said*

I segreti di Al Shabab

Il problema maggiore che viene sollevato rispetto alla pacificazione della Somalia è costituito dalla presenza in vaste aree del paese della formazione fondamentalista islamica Al Shabab che si ispira apertamente ad Al Qaeda. Occorre premettere che l’islamismo non ha una lunga tradizione in Somalia dove si è sviluppato appena da cento anni circa ed è stato interpretato con modalità assai poco rigide sino alla fine del dittatore Siad Barre nel 1991. Le donne portavano un copricapo facoltativo solo dopo il matrimonio, vestivano con la trasparente e seducente mussolina e circolavano da sole, anche di notte, senza problemi. Quando si spargeva la notizia di un furto, era quello del sapone dimenticato al lavatoio e non più ritrovato. L’evento sollevava scandalo sulla stampa ma nessuno invocava la Sharia.
Sono passati ventidue anni di abbandono nell’anarchia più selvaggia e il medioevo si è impadronito anche della natura di molti somali, facendogli rimpiangere quell’ordine senza il quale nessuno sviluppo può avverarsi. Quest’aspirazione fu, infatti, alla base del consenso di cui godettero le Corti islamiche che a metà 2006 vinsero i Signori della Guerra restituendo a Mogadiscio un po’ di serenità, pur chiudendo i cinema. Ma durò appena sei mesi, da luglio a dicembre, quando le Istituzioni Federali di Transizione (IFT) volute dalla comunità internazionale sin dal 2004 e sostenute dalle milizie etiopi e dagli USA, da Nairobi, dove si erano formate, e previa tappa a Baidoa irruppero a Mogadiscio determinando una scissione nelle Corti islamiche.
Da una parte si schierarono gli islamisti moderati, disposti a dialogare con le istituzioni di transizione in cui, col tempo, hanno poi preso il sopravvento occupando i posti di maggior prestigio con Sheikh Sharif Ahmed a capo della Repubblica e Sheikh Sharif Hassan quale speaker del Parlamento; dall’altra parte, invece, si schierarono i fondamentalisti refrattari ad ogni dialogo che si stanziarono nelle zone centromeridionali raccogliendosi intorno ad Al Shabab.
Le battaglie di Al Shabab contro le IFT hanno assunto, così, anche toni nazionalistici, essendo gli etiopi che le sostenevano nemici dei somali da tempo immemorabile.
A seguito degli accordi di Gibuti del 2008, gli etiopi si sono fatti abilmente sostituire, senza rinunciare alla loro influenza sulla Somalia, dalla missione AMISOM, adottata dall’Unione Africana con truppe burundesi e, soprattutto, ugandesi, in tutto forti di 8.000 uomini, ma oggi in procinto di aumentare fino a 10.000.
Le truppe del governo federale di transizione (TFG) e di AMISOM si sono confrontate con le milizie di Al Shabab anche all’interno di Mogadiscio, ma senza grandi risultati sino al febbraio di quest’anno, quando hanno cominciato finalmente a mietere successi dopo che il Primo Ministro Mohamed Abdullahi Mohamed, detto Formaggio, ha adottato pagamenti più puntuali delle loro mercedi. 
Ma il 19 giugno Mohamed è stato costretto alle dimissioni a seguito degli accordi di Kampala raggiunti il precedente giorno 9 dai due Sheikh con l’attiva partecipazione del Presidente ugandese Museveni e dell’Ambasciatore delle Nazioni Unite per la Somalia Agostino Mahiga, riuniti in videoconferenza con il Presidente etiope Melez Zenawi.
Poco dopo le dimissioni del Primo ministro, le milizie di Al Shabab hanno ripreso il sopravvento sulle truppe del TFG e di AMISOM finché, nella notte tra venerdì 5 e sabato 6 agosto, del tutto inaspettatamente, i fondamentalisti hanno abbandonato le postazioni di Mogadiscio dichiarando, tramite il loro portavoce Ali Mohamud Rage, di compiere una ritirata strategica volendo in tal modo aiutare la martoriata popolazione a superare il grave momento di carestia, ma riservandosi di infliggere ancora agli avversari danni memorabili.  Per vero, altri capi hanno subito smentito affermando che si è trattato di un semplice mutamento di tattica volto a sottrarsi al confronto diretto fra le milizie per aderire alle tecniche terroristiche in uso in Pakistan e Afghanistan, ma anche queste dichiarazioni ondivaghe hanno manifestato le difficoltà insorte in seno all’organizzazione.
Un così rapido ed inaspettato abbandono del campo ha lasciato perplessi gli osservatori e, per meglio comprenderne le ragioni, si deve necessariamente approfondire la conoscenza di Al Shabab.

I QUATTRO FATTORI DI CRISI DI AL SHABAB - Una cosa è certa: la ritirata da Mogadiscio non è una vittoria del TFG e di AMISOM, ma costituisce una scelta maturata all’interno di Al Shabab per il concatenarsi di almeno quattro fattori essenziali.
Il primo fattore è stato determinato dalla perdita dei capi.
Dopo le uccisioni mirate degli americani negli anni passati, in cui sono morti, tra gli altri, Aden Hashi Ayrow e Salah Ali Nabhan, all’inizio di giugno è rimasto ucciso ad un posto di blocco organizzato dalla polizia del TFG di Mohamed Abdullahi Mohamed, il terrorista Fazul Abdallah Mohamed, uno dei più ricercati del pianeta, responsabile di Al Qaeda per tutta l’Africa Orientale e organizzatore degli attentati alle Ambasciate USA in Tanzania e Kenya nel 1998. Sul suo capo gli Stati Uniti avevano fissato una taglia di 5 milioni di dollari che il Primo ministro Mohamed ha devoluto alla Polizia di Mogadiscio.
A questa grave perdita si è sommata quella di “Ikhrab”, somalo keniota di cittadinanza norvegese che garantiva il collegamento con l’Europa, nonché il grave ferimento del britannico di origini libanesi Bilal el Berjawi e dell’egiziano “Shakur” che garantivano il collegamento con lo sceicco americano di origine yemenita Anwar al-Awlaki, capo di Al Qaeda in America.
Si è così indebolita la politica estera di Al Shabab con perdita di apporti strategici e non solo.
Il secondo fattore è stato quello economico. La rinuncia a Mogadiscio, sotto questo profilo, non è stata indolore. Basti pensare alle tasse che venivano riscosse dalle imprese del mercato di Bakarah, centro commerciale della città con circa 4.000 negozi, ciascuno dei quali pagava da 50 dollari al mese, per i più piccoli, a parecchie migliaia di dollari per le società di telecomunicazioni.
Secondo Matt Bryden, investigatore delle Nazioni Unite, la rinuncia a Mogadiscio significa che Al Shabab dispone ancora, evidentemente, di ingenti risorse proprie e in particolare, egli afferma, quelle conseguite attraverso la desertificazione delle regioni del centro sud e la trasformazione del legname in carbone. Secondo altri, invece, l’organizzazione è fortemente impoverita a causa della primavera araba che ha costretto molti stati generosi come la Libia, l’Egitto, la Siria e lo Yemen, per esempio, a interrompere le donazioni.
Il terzo fattore è costituito dalla carestia che ha colpito proprio le regioni in cui Al Shabab era dominante e che ha costretto la popolazione ad abbandonare i territori, per nulla convinta che pregare per la pioggia, come imponevano i fondamentalisti, fosse sufficiente a risolvere il problema, peraltro in gran parte innestato proprio dalla desertificazione per produrre il carbone in quelle regioni che in precedenza non conoscevano il triste fenomeno della fame.
In questo modo Al Shabab ha perso il consenso e non può fare altro che assistere all’abbandono dei territori da parte della popolazione che aveva sottomesso, con perdita delle tasse su tutte le attività commerciali, su quelle agricole e della pastorizia.
Il quarto fattore è la conseguenza dei precedenti ed è costituito dalle lotte interne fra i capi ingenerate dalle difficoltà.
Di fronte al calo del consenso ed alla perdita economica, i capi del meridione si sono detti aperti ad accettare gli aiuti internazionali, mentre uno dei capi del nord, lo sceicco Godane che era molto vicino al defunto terrorista Fazul Abdallah Mohamed, è fortemente contrario. Le divisioni hanno indebolito la struttura verticistica di Al Shabab consigliando la ritirata strategica da Mogadiscio.   

LA STRUTTURA DI AL SHABAB – Al Shabab è fortemente militarizzata e la sua struttura si articola in tre settori principali.
La Polizia, dotata di un’apposita divisa, svolge funzioni di ordine pubblico: polizia stradale, guardia delle moschee, posti di blocco, vigilanza di mercati e tribunali. Svolge, in generale, compiti di pubblica sicurezza.
Il secondo settore è la Milizia, un vero e proprio esercito addestrato come commando, veloce ed efficiente. E’ in continuo spostamento per raggiungere qualunque zona che abbia bisogno del suo intervento di alta specializzazione. Dispone di armi molto sofisticate fino alla contraerea. Sono queste le truppe che contrastano quelle del TFG e di AMISOM.
Il terzo settore, il più complesso ed importante, si occupa di Amniyad, i servizi di sicurezza. I suoi membri sono viziati e coccolati. Vengono pagati molto bene, possono sposare più mogli e possono fruire spesso delle ferie. Nel loro addestramento rientrano i racconti delle ingiustizie subite dal mondo arabo dalla notte dei tempi fino al dramma palestinese dei giorni nostri.
L’Amniyad si articola in varie brigate specializzate.
Una si occupa del terrorismo ed in molti ritengono che lo sganciamento delle milizie dalle battaglie di Mogadiscio ne svilupperà ancora di più l’attività con un forte incremento degli attentati “mordi e fuggi” per mantenere la promessa dei danni indimenticabili proferita dal portavoce Ali Mohamud Rage.
Un’altra si occupa delle infiltrazioni per raccogliere informazioni. Alcuni suoi membri si tagliano i capelli come ragazzi giovani e moderni e vestono Baggy seguendo la moda. Altri allungano le barbe e recano pesanti rosari. Ogni gruppo di camuffati è composto di 40 o 50 membri agli ordini di un solo capo, ma nelle città operano sempre una pluralità di gruppi con lo stesso compito in ossequio al principio che, se uno fallisce, l’altro può raggiungere lo scopo e, comunque, la convergenza di più gruppi permette di incrociare i risultati dello spionaggio provenienti da diverse fonti di informazione.
Un’altra brigata, ancora, è impegnata come guardia del corpo dei capi.
Una quarta struttura ha il compito di scoprire i contrasti all’interno dell’organizzazione per prevenire pericolose fratture teologiche o culturali.
Una quinta branca è particolarmente organizzata con armi leggere ma veloci e fa da tramite tra la sicurezza e la milizia rinforzando quest’ultima in caso di bisogno, anche con l’apporto delle informazioni di cui dispone.
La sicurezza di Al Shabab è capillare in tutta la Somalia e ben inserita nel tessuto sociale. Si tratta di insospettabili che possono procedere anche ad arresti repentini, veri e propri rapimenti.
Si calcola che, complessivamente, Al Shabab disponga oggi di una forza tra i 7 e i 9000 uomini, reclutati tra i ragazzi di strada e addestrati con modalità semplici ma efficaci: usare la pistola per mirare alla testa o al cuore del nemico, punti vitali che non lasciano scampo.
La selezione prevede che tutti i ragazzi vengano intervistati e schedati. A differenza del TFG, gli Al Shabab, che sono culturalmente superiori e più efficienti, usano un formidabile sistema anagrafico. Neppure le zone somale meglio organizzate, come il Somaliland o il Puntland, usano tecniche così avanzate come Al Shabab. Ogni scheda prevede anche i recapiti telefonici dei familiari così da poter intervenire in caso di tradimento con intimidazioni alla famiglia.
La fidelizzazione religiosa è poi accompagnata dalla puntualità di Al Shabab nel pagamento degli stipendi e nell’assistenza ai familiari durante le missioni. Nel TFG, invece, il primo a ripristinare la puntualità nei pagamenti dell’esercito è stato il Primo ministro Mohamed A. Mohamed che, infatti, ha conseguito significativi successi contro i fondamentalisti.
Ma l’aspetto più pericoloso della presenza di Al Shabab in Somalia è l’indottrinamento dei giovani all’osservanza più letterale del Corano, con un marchio nelle loro fragili personalità che inibisce e inibirà le capacità critiche onde costringerli a replicare una dottrina sanguinaria sino al sacrificio della vita pur di infliggere danni al nemico con i kamikaze.
Chi non accetta di aderire al reclutamento, viene ucciso sul posto. Chi rifiuta di sparare, viene ucciso sul posto. L’unica alternativa è la fuga verso quell’Europa per raggiungere la quale si affrontano viaggi costosi e pericoli mostruosi, al termine dei quali vi è quasi sempre la vita da barboni nelle nostre stazioni ferroviarie di fronte all’insensibilità della grande maggioranza degli europei, sordi perfino ai richiami delle norme internazionali sui rifugiati.

I CAPI DI AL SHABAB – Il Primo capo si chiama Ahmed Abdi Aw Mohamed, meglio conosciuto come Sheikh Mukhtar Abu Zubayr Godane. E’ originario del Somaliland. E’ un quarantenne molto istruito. E’ un poeta. Ha frequentato i gruppi jihadisti in Pakistan e Afghanistan. Usa un ampio copricapo per nascondere il volto. E’ definito molto duro e schivo. Non ama farsi notare. E’ ambizioso e predica una grande nazione islamica come la vuole Al Qaeda, suo modello politico di ispirazione. E’ soprattutto lui ad opporsi agli aiuti umanitari alla popolazione per timore di infiltrazioni di “crociati”.
Il secondo si chiama Ibrahim Haji Jama Mee’aad, meglio conosciuto come Ibrahim Al-Afghani.
Anche lui è originario del Somaliland. E’ responsabile dei settori dell’economia e della formazione. E’ una guida. Secondo i tanti che ne dibattono su Voice Of America, è colui che assume le decisioni più incisive e molti ritengono che sia più ascoltato di Ahmed Abdi Aw Mohamed. Anche lui quarantenne, ha almeno sette nomi. Ha vissuto negli USA, in Virginia. E’ estroverso e carismatico. E’ un vero leader che ama il contatto con la gente che incanta recitando poesie.
Questi due primi capi vanno d’accordo tra loro e sono complementari.
Il terzo si chiama Abu Mansur Muqtar Robow, meglio conosciuto come Abu Masur. E’ nato a Berdaale, città nella regione di Bay nella zona meridionale del paese. E' responsabile della difesa. Ha frequentato sia il Pakistan che l’Afghanistan e ancora oggi, commovendosi, descrive il suo incontro con Osama Bin Laden come l’episodio più importante della sua vita. Prima della scissione delle Corti islamiche, era molto vicino all’attuale Presidente della Repubblica Sheikh Sharif Ahmed, ma si dice che, siccome aveva anche lui l’ambizione di diventare presidente, dopo un litigio per rivalità e nonostante le scuse chieste da Sheikh Sharif Ahmed, si è spostato dai moderati con Al Shabab. E’ ritenuto meno dotato culturalmente dei primi due capi, ma è meno estremista rispetto a loro e per questo è il più amato in Al Shabab.
Il quarto capo si chiama Sheikh Hussein Fidow ed è il ministro dell’interno dell’organizzazione. Ha rapporti con le regioni somale, con la sicurezza ed è preposto al prelievo delle tasse doganali nei porti e aeroporti. E’ nato nella regione di Brandir, la stessa della capitale Mogadiscio, ed è molto sostenuto dalla sua gente. E’ però ritenuto meno influente degli altri capi.
Nonostante le problematiche che vive attualmente, Al Shabab rimane una pericolosissima ed organizzatissima struttura che mira comunque alla destabilizzazione della Somalia.
La contiguità con Al Qaeda e i suoi metodi permette di prevedere che, all’abbandono di Mogadiscio, seguirà una sanguinosa stagione di attentati che metteranno a dura prova la capacità della comunità internazionale già impegnata sui fronti terroristici dell’Afghanistan, del Pakistan e dell’Iraq.
Gli USA, proprio in questi giorni, stanno impegnando in Somalia diversi droni, gli aerei senza pilota ai quali sono spesso dovuti danni collaterali sui civili nei bombardamenti mirati (male) in Afghanistan e anche questa recentissima novità può aver consigliato i capi di Al Shabab ad abbandonare le loro tradizionali sedi nella capitale per rifugiarsi in aree più riservate.

* pubblicato sul Blog di Repubblica


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