Articolo 21 - INTERNI
Cosa cambia con il governo Monti?
di Nicola Tranfaglia
Se qualcuno avesse conservato ancora qualche dubbio sul nuovo governo, il discorso tenuto dal presidente del Consiglio Mario Monti, in poco più di cinquanta minuti al Senato, avrà dovuto francamente ricredersi di fronte al clima nuovo, agli atteggiamenti dei ministri e alle parole fondamentali e condivisibili dalle più diverse posizioni politiche, pronunciate dal capo dell’esecutivo, enunciando il programma del suo gabinetto.
I media in generale hanno tentato in ogni modo di limitare il senso dell’operazione contrapponendo il governo tecnico ai governi politici e cercando di limitare il senso di un impegno nazionale e corale fino alla chiusura della legislatura che emerge dal discorso di Monti e porta finalmente sulla scena parole (che fino a ieri erano proibite o comunque accantonate) come le esigenze della crescita non soltanto economica, ma anche morale e culturale del paese, i bisogni delle nuove generazioni e del genere femminile fino a questo punto mortificato dalla politica populistica, quelle donne che pure costituiscono la metà abbondante della popolazione italiana.
E poi il bisogno, a lungo maturato negli ultimi anni, di una politica economica che sia nello stesso tempo rigorosa ed equa, attenta a distribuire sacrifici e rinunce tra i diversi strati della popolazione nazionale e cercare in ogni modo di restituire alla politica il senso di un dovere esercitato a vantaggio della collettività piuttosto che per un gruppo ristretto di persone che fanno parte delle oligarchie ancora così diffuse e potenti nel nostro paese.
Ho sentito nelle ultime ore, parlando con le persone più diverse, una sorta di sollievo e di speranza che non sentivo da molto tempo: il sollievo di non dover parlare delle ultime imprese pubbliche ma soprattutto private del leader populista che ha occupato da anni le maggiori televisioni e i più grandi giornali (tranne qualche eccezione), l’idea di poter ritornare alla normale dialettica tra i partiti, le forze politiche ma anche tra quelli che vivono nella società civile.
Una dialettica che nasce dalla discussione sempre aperta sui problemi gravi della nostra Italia che richiedono quella “coesione sociale” di cui il nuovo capo dell’esecutivo ha potuto parlare grazie soprattutto all’opera di un Capo dello Stato particolarmente vigile e attento. Monti ha ritenuto di dover dedicare al tema della “coesione sociale” addirittura un ministero, suscitando l’ira della sola opposizione parlamentare rimasta, di quella Lega Nord che ha generato a sua volta, con le minacce di secessione, incubi e brutti sogni nei cittadini italiani rimasti fedeli alla costituzione repubblicana e all’unità del nostro paese.
Ma non sappiamo ancora che cosa succederà nelle prossime settimane di fronte ai proclami combattivi di Silvio Berlusconi che sembra aver già superato il trauma delle improvvise dimissioni e ha contrapposto al messaggio moderato, inviato domenica scorsa, il proposito opposto dicendo di voler ritornare in piazza e di gridare alla democrazia sospesa.
Una pretesa assurda da parte di un imprenditore-politico che ha dominato la scena per quasi un ventennio e ha distrutto la credibilità internazionale dell’Italia di fronte ai principali paesi dell’Europa e dell’Occidente ma che, grazie al suo persistente conflitto di interessi, può disporre di tre canali televisivi e dell’appoggio della maggior parte dei quotidiani e dei periodici che gli italiani trovano ogni giorno o ogni settimana in edicola.
Ormai è quasi impossibile scrivere per i giornali (anche piccoli) se non si è parte di una corporazione o di un partito. Non ci resta che la rete, unico strumento che permette ancora quella libertà che le testate in circolazione non lasciano più o perché continuano a guardare al leader del populismo italiano o perché devono rispettare gerarchie e graduatorie fissate dalle forze politiche presenti in parlamento.
Dove è finita la libertà di informazione che l’articolo 21 della nostra costituzione afferma di voler conservare e tutelare?
A una simile domanda oggi è difficile rispondere perché in un momento, che è insieme incerto e delicato, anche la più piccola smagliatura può creare problemi e occorre prenderne atto dopo inutili tentativi compiuti negli ultimi tempi. Già, in un momento come questo, non si può svolgere un compito di osservazione critica della realtà della realtà sulla base di principi chiari e fondati come quelli del dettato costituzionale.
Se non si fa parte di una squadra o di un partito non si può parlare. Una simile condizione rischia di abrogare i nostri principi costituzionali e c’è da sperare che si tratti di una condizione temporanea dalla quale potremo uscire quando il populismo sarà finalmente sconfitto. Non sarà facile non solo perché il populismo è ferito ma non sconfitto ma anche per l’influenza molto negativa sulle libertà civili che ha esercitato in questi anni il regime berlusconiano anche sugli avversari sconfitti attraverso la grande vittoria dell’aprile 2008 e le successive vittorie parziali conseguite in questi anni.
La verità è che sarà necessario lavorare in un ampio schieramento per il ripristino della normale dialettica democratica di fronte a chi difende l’egemonia del populismo e di quelle regole non scritte che escludono la società civile e i battitori liberi da ogni dialogo sul presente e sul futuro dell’Italia contemporanea.
Questo compito è urgente e c’è da sperare che tutti gli spiriti liberi lavorino per uscire dalla attuale impasse (di cui sono complici non solo i seguaci di Berlusconi ma tutti quelli che hanno paura di accantonare i vincoli dell’attuale sistema politico e parlamentare) e continuino ad ispirarsi ai principali fondamentali del dettato costituzionale del 1948.
Un traguardo - non possiamo dimenticarlo - a cui si giunse dopo una guerra sanguinosa e vent’anni di una dittatura feroce ed oppressiva.
I media in generale hanno tentato in ogni modo di limitare il senso dell’operazione contrapponendo il governo tecnico ai governi politici e cercando di limitare il senso di un impegno nazionale e corale fino alla chiusura della legislatura che emerge dal discorso di Monti e porta finalmente sulla scena parole (che fino a ieri erano proibite o comunque accantonate) come le esigenze della crescita non soltanto economica, ma anche morale e culturale del paese, i bisogni delle nuove generazioni e del genere femminile fino a questo punto mortificato dalla politica populistica, quelle donne che pure costituiscono la metà abbondante della popolazione italiana.
E poi il bisogno, a lungo maturato negli ultimi anni, di una politica economica che sia nello stesso tempo rigorosa ed equa, attenta a distribuire sacrifici e rinunce tra i diversi strati della popolazione nazionale e cercare in ogni modo di restituire alla politica il senso di un dovere esercitato a vantaggio della collettività piuttosto che per un gruppo ristretto di persone che fanno parte delle oligarchie ancora così diffuse e potenti nel nostro paese.
Ho sentito nelle ultime ore, parlando con le persone più diverse, una sorta di sollievo e di speranza che non sentivo da molto tempo: il sollievo di non dover parlare delle ultime imprese pubbliche ma soprattutto private del leader populista che ha occupato da anni le maggiori televisioni e i più grandi giornali (tranne qualche eccezione), l’idea di poter ritornare alla normale dialettica tra i partiti, le forze politiche ma anche tra quelli che vivono nella società civile.
Una dialettica che nasce dalla discussione sempre aperta sui problemi gravi della nostra Italia che richiedono quella “coesione sociale” di cui il nuovo capo dell’esecutivo ha potuto parlare grazie soprattutto all’opera di un Capo dello Stato particolarmente vigile e attento. Monti ha ritenuto di dover dedicare al tema della “coesione sociale” addirittura un ministero, suscitando l’ira della sola opposizione parlamentare rimasta, di quella Lega Nord che ha generato a sua volta, con le minacce di secessione, incubi e brutti sogni nei cittadini italiani rimasti fedeli alla costituzione repubblicana e all’unità del nostro paese.
Ma non sappiamo ancora che cosa succederà nelle prossime settimane di fronte ai proclami combattivi di Silvio Berlusconi che sembra aver già superato il trauma delle improvvise dimissioni e ha contrapposto al messaggio moderato, inviato domenica scorsa, il proposito opposto dicendo di voler ritornare in piazza e di gridare alla democrazia sospesa.
Una pretesa assurda da parte di un imprenditore-politico che ha dominato la scena per quasi un ventennio e ha distrutto la credibilità internazionale dell’Italia di fronte ai principali paesi dell’Europa e dell’Occidente ma che, grazie al suo persistente conflitto di interessi, può disporre di tre canali televisivi e dell’appoggio della maggior parte dei quotidiani e dei periodici che gli italiani trovano ogni giorno o ogni settimana in edicola.
Ormai è quasi impossibile scrivere per i giornali (anche piccoli) se non si è parte di una corporazione o di un partito. Non ci resta che la rete, unico strumento che permette ancora quella libertà che le testate in circolazione non lasciano più o perché continuano a guardare al leader del populismo italiano o perché devono rispettare gerarchie e graduatorie fissate dalle forze politiche presenti in parlamento.
Dove è finita la libertà di informazione che l’articolo 21 della nostra costituzione afferma di voler conservare e tutelare?
A una simile domanda oggi è difficile rispondere perché in un momento, che è insieme incerto e delicato, anche la più piccola smagliatura può creare problemi e occorre prenderne atto dopo inutili tentativi compiuti negli ultimi tempi. Già, in un momento come questo, non si può svolgere un compito di osservazione critica della realtà della realtà sulla base di principi chiari e fondati come quelli del dettato costituzionale.
Se non si fa parte di una squadra o di un partito non si può parlare. Una simile condizione rischia di abrogare i nostri principi costituzionali e c’è da sperare che si tratti di una condizione temporanea dalla quale potremo uscire quando il populismo sarà finalmente sconfitto. Non sarà facile non solo perché il populismo è ferito ma non sconfitto ma anche per l’influenza molto negativa sulle libertà civili che ha esercitato in questi anni il regime berlusconiano anche sugli avversari sconfitti attraverso la grande vittoria dell’aprile 2008 e le successive vittorie parziali conseguite in questi anni.
La verità è che sarà necessario lavorare in un ampio schieramento per il ripristino della normale dialettica democratica di fronte a chi difende l’egemonia del populismo e di quelle regole non scritte che escludono la società civile e i battitori liberi da ogni dialogo sul presente e sul futuro dell’Italia contemporanea.
Questo compito è urgente e c’è da sperare che tutti gli spiriti liberi lavorino per uscire dalla attuale impasse (di cui sono complici non solo i seguaci di Berlusconi ma tutti quelli che hanno paura di accantonare i vincoli dell’attuale sistema politico e parlamentare) e continuino ad ispirarsi ai principali fondamentali del dettato costituzionale del 1948.
Un traguardo - non possiamo dimenticarlo - a cui si giunse dopo una guerra sanguinosa e vent’anni di una dittatura feroce ed oppressiva.
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