di Ettore Siniscalchi
Lo sciopero generale, l'ottavo nella storia della giovane democrazia spagnola, contro la riforma del lavoro indetto dai sindacati spagnoli è stato un successo. Adesione alta, secondo i sindacati una media del 77%, pochi incidenti, anche se non sono mancati episodi di guerriglia urbana, nel centro di Barcellona a opera di gruppi estremisti che nulla hanno a che fare coi sindacati, e almeno 50 arresti, soprattutto di partecipanti a picchetti davanti ai cancelli di alcune fabbriche o a rimesse di autobus di linea e del trasporto urbano.
Al di là della consueta guerra di cifre (che si basa su dati come l'entità dei consumi elettrici, l'adesione nei settori più difficilmente quantificabili come il commercio e la ristorazione, le accuse di picchettaggi prevaricatori) nessuno può negare le evidenze sotto gli occhi di tutti: i trasporti praticamente inesistenti, le stazioni della metro vuote, i terminal aeroportuali deserti (con le conseguenze che si ripercuotevano in tutti gli scali europei), le lunghe file di autovetture private che sin dall'alba hanno intasato le strade di accesso alle grandi città, l'interruzione delle trasmissioni di diverse emittenti radiotelevisive regionali pubbliche, la chiusura dei più importanti impianti industriali (Ford, Nissan, Seat), il blocco dei porti, degli interporti e dei mercati generali. Se il governo ha tentato di minimizzare, dicendo in mattinata che l'adesione allo sciopero era stata inferiore alla protesta del settembre 2010, quella volta contro il governo Zapatero, nel corso della giornata si è capito che così non era.
In Andalusia i trasporti e i mercati sono paralizzati; in Galizia industria e porti fermi; nel Paese Basco l'adesione nelle industrie ha superato ogni aspettativa; altissime le adesioni nella comunità di Madrid e in Catalogna. Tanto che già prima di mezzogiorno i sindacati, Commissiones Obreras e Ugt, lanciavano il loro ultimatum: o il governo apre un tavolo entro il primo maggio o ci saranno nuove e massicce proteste. Per i sindacati si è trattato di un successo politico sul quale era lecito dubitare. La pressante campagna di stampa che definiva lo sciopero un atto contrario agli interessi del paese e l'ostilità dei movimenti contro partiti e sindacati, faceva temere la possibilità di un mezzo fallimento. Invece, studenti e Indignados si sono uniti alle proteste e la cittadinanza non è stata ostile. Certamente questo dipende dalla sostanza della riforma del lavoro, il costo delle nuove norme per i lavoratori sono veramente alti, sia per i loro portafogli che per la facilità permessa nel licenziare senza giusta causa adducendo motivazioni economiche non verificabili. Ha contato molto anche il rifiuto complessivo per le politiche di austerità e per le politiche economiche continentali, giudicate troppo favorevoli a chi porta le maggiori responsabilità della crisi, banche e finanza, e molto dure verso la cittadinanza e il mondo del lavoro. Uno sciopero contro la riforma del lavoro ma anche contro i tagli alle spese sociali, che lasciano le famiglie ancora più sole davanti alla crisi.
Il successo della protesta preoccupa, non solo in Spagna, i fautori delle riforme chieste dall'Ue a alcuni paesi membri, tra i quali anche l'Italia. Non a caso ieri a Madrid c'era anche Susanna Camusso e i dirigenti dei sindacati europei: l'opposizione alle ricette anti-crisi comincia a darsi una dimensione continentale e questo, unito agli effetti immediatamente recessivi delle politiche di contenimento del deficit e all'aumento della disoccupazione conseguente alle riforme dei mercati del lavoro, fa temere l'Ue di non essere in grado di imporre le sue soluzioni fino in fondo ai governi che devono attuarle.
I cento giorni del governo Rajoy, che cadevano proprio oggi, sono molto più amari di quanto il Pp si aspettava. Lo sciopero viene dopo la sostanziale tenuta della sinistra nelle elezioni andaluse, con la roccaforte rossa che resterà alla sinistra, e che sono state lette dai più come il primo tangibile rifiuto della politica dei tagli e dell'austerità. Ma per Rajoy le brutte notizie non finiscono qui. Mario Monti s è fatto portavoce delle preoccupazioni europee sulla tenuta del sistema spagnolo, che è ormai l'anello debole dell'Ue di fronte alla crisi. Gli aggiustamenti giunti successivamente, per bocca del Commissario Ue agli affari economici, Olli Rehn, che ha detto che "La Spagna non ha alcun bisogno di aiuti europei e di programmi finanziati dal fondo salva-stati", sono state accolte con sollievo da Madrid. Ma non hanno convinto, per esempio, Willem Buiter, capo economista del colosso bancario statunitense Citi, che ha continuato a prospettare che la Spagna possa dover ricorrere agli aiuti. Anche l'economista Nick Dunbar, su Il Riformista, aveva pochi giorni fa parlato espressamente del rischio della ristrutturazione del debito spagnolo.
Non ha aiutato il recente balletto sul rapporto deficit/Pil, con la Spagna che ha rivisto l'impegno per il 2012 al 5,8% rispetto al 4,4% concordato con le autorità europee. Dopo una severa reprimenda della Ue, la deviazione della Spagna dagli obiettivi è stata giudicata "Seria e grave" da Rehn, si è giunti a un accordo sul 5,3%. Non aiuta, poi, la speculazione internazionale che vede ora la Spagna come il capo debole del branco europeo, da attaccare e divorare - e le dichiarazioni di Buiter vanno lette anche in questo senso. Non aiuta, soprattutto, la debolezza del sistema bancario, esposto verso il mercato immobiliare e pieno di crediti per mutui difficilmente esigibili da famiglie, oramai letteralmente sul lastrico, che si vedono sequestrare immobili che resteranno comunque invenduti.
E' di pochi giorni fa la creazione del più grande gruppo bancario del paese, con la fusione de La Caixa e della Banca Civica, che i mercati hanno snobbato, temendo anzi che le maggiori dimensioni comportino maggiori rischi sistemici. La Ue ha oggi rinnovato la fiducia verso il governo spagnolo ma Madrid è sotto osservazione. La maggioranza assoluta di Rajoy era stata interpretata come un chiaro mandato a attuare le dure riforme, come quella sul lavoro, ma ora il timore è che esse non possano contare sull'appoggio della società spagnola. E l'interdipendenza economica e bancaria europea riaccende il fuoco della paura: se la Spagna crolla, dopo toccherà all'Italia e a tutta l'eurozona.