di Federico Orlando*
Oggi il presidente della repubblica Giorgio Napolitano apre a Genova il ”Giubileo della Nazione”, ricordando la partenza dei Mille di Garibaldi dallo “scoglio di Quarto” verso il regno delle Due Sicilie, da unire all'Italia che grazie al Piemonte s'era andata realizzando sui campi della Lombardia. Le cronache dicono che alla celebrazione si è associato anche l'arcivescovo di Genova nonché presidente della Cei, cardinale Bagnasco, che sembra aver assimilato l'insegnamento di Paolo VI, più di quarant'anni fa: il risorgimento fu disegno provvidenziale e liberò la chiesa dal fardello del potere temporale. Tutto il contrario di quel che i suoi predecessori sul trono di Pietro avevano detto da Pio IX in poi, prima scomunicando i protagonisti dell'unità nazionale (da Vittorio Emanuele, a Cavour a Garibaldi), poi proibendo agli elettori cattolici di votare e partecipare, nemmeno come oppositori, alla vita politica del regno. Questo per rimettere i puntini sulle “i” della storia. Per la politica, si può accettare il riferimento di Napolitano al “contributo essenziale” dei cattolici alla storia del paese. Contributo ricordato dal presidente proprio al cardinale Bagnasco, che aveva parlato dei 150 anni come “felice occasione per un nuovo innamoramento dell'essere italiani”. Quell'innamoramento, volontario o no (nessuno lo sa meglio di Bagnasco, che fu capo dei cappellani militari), fu consacrato col sangue, nell'infame mattanza della Grande Guerra: dove liberali, cattolici, nazionalisti, socialisti, repubblicani fecero per l'Italia harakiri di tutto, i liberali della loro egemonia (a Natale 1915, dopo soli sei mesi di guerra, i sottotenentini borghesi di complemento, appena usciti dalle università, erano tutti morti negli assalti frontali di Cadorna); i cattolici della loro fedeltà al divieto, già impallidito, di essere cittadini; i repubblicani dell'opposizione a tutto quel che faceva lo stato monarchico; i socialisti del mito della solidarietà internazionale dei lavoratori: ciascun lavoratore si fece ammazzare per il suo paese. Seicentomila morti “per Trento e Trieste”, un milione e mezzo di feriti e mutilati. Da quella mattanza nacque il fascismo, altri 25 anni di tirannia e di guerra.
Ieri – a sentire i quirinalisti – il Colle non nascondeva la sua irritazione per il comportamento forse più goliardico e parolaio che rivolto a intenzioni serie del ministro Calderoli, il cui buonsenso (è meglio celebrare le realtà che si celebrano migliorandole) è stato soverchiato dal rifiuto di andare alle manifestazioni dell'unità. Per non parlare del ministro Maroni: era stato chiamato da due deputati dell'Api (Pisicchio e Mosella) a rispondere nel question time a una loro interrogazione sull'incompatibilità di ministri che giurano sullo statuto della Lega (articolo1, indipendenza della Padania) e sulla costituzione (la repubblica è una e indivisibile). Il problema della “doppia lealtà” era stato sollevato a dicembre da un gruppo di intellettuali, parlamentari, giornalisti, tutti vicini ad Europa (primo firmatario Arnaldo Sciarelli), che avevano indirizzato una lettera-appello ai presidente delle camere Fini e Schifani. Sui sentimenti nazionali di Fini, che ieri ha attaccato la “miopia” del governo sulla Stampa per le briciole destinate alle celebrazioni, non ci sono dubbi. Però a quell'appello non venne risposta dalle due presidenze. Perciò i due deputati dell'Api rutelliana lo hanno ripreso e ne hanno fatto un'interrogazione al governo. Ma il governo ha schivato l'imbarazzo, nascondendosi dietro il paravento di una presunta incompatibilità regolamentare che ha indotto la camera a non ammettere l'interrogazione. Sicché non sapremo mai qual è il pensiero del nostro ministro dell'interno non solo sulle celebrazioni del “Giubileo della nazione”, ma nemmeno sul duplice giuramento suo e dei suoi colleghi, cioè sull'inammissibile della duplice e conflittuale lealtà.
Il signor Bossi, che della Lega è il padre-padrone, non può permettersi di dire, 24 ore prima della manifestazione di Quarto, “non so se ci andrò, devo ancora decidere. Ma, se dovesse chiamarmi Napolitano”... Allora il capo della Lega passerebbe su cose inutili e un po' retoriche quali sono le celebrazioni. A lui, viva la sincerità, interessa arrivare ai 150 anni del prossimo marzo, “con il federalismo fatto”. E allora si metta d'accordo col suo governo sui tempi del federalismo. Quanto agli anniversari, anche noi non ne andiamo matti, ma li riteniamo sostanziali se aiutano a rifondare la memoria storica, per un verso o per l'altro, s'intende. Se certi riti non fossero ad substantiam, ci si dovrebbe chiedere perché i francesi celebrano il 17 luglio ai Campi Elisi, i russi la vittoria antinazista sulla Piazza Rossa, i cinesi la rivoluzione di Mao a Tien Anmen, gli inglesi il genetliaco della regina, gli americano il Memorial Day, e via girando il mappamondo. Tutti fessi gli abitanti del mappamondo? Perfino i leghisti provarono a celebrare a cinema Alberto da Giussano, salvo accorgersi dalle sale vuote che non fregava niente a nessuno. Segno che i popoli decidono, con la loro partecipazione o no se le ricorrenze sono vitali per l'oggi o capziose e da evitare.
Nei prossimi giorni alla sala stampa della camera i promotori dell'appello a Fini e Schifani, rimasto senza risposta anche nel mancato question time di Maroni, illustreranno alla stampa le intenzioni di quel documento, che dopo oltre quattro mesi si conferma più attuale che mai: perché, anche se resta vera che la convinzione espressa una volta da Napolitano che giudizi e pregiudizi di controcultura unitaria sono “sommari e volgari”, resta il male infinito che si fa ad un paese al quale la politica sa parlare solo di pancia.
* Europa Quotidiano