di Antonella Napoli
E’ calato nuovamente il silenzio sul Sudan e sulla crisi umanitaria in Darfur. Della nuova ondata di repressione e di arresti delle ultime settimane si trova traccia solo sui media internazionali e su qualche sito internet. Nel frattempo tre operatori di un’organizzazione non governativa sono stati sequestrati a Nyala, nel Sud Darfur e il comandante della missione di peacekeeping delle Nazioni Unite e Unione africama, Ibrhaim Gambari, nella sua relazione al Consiglio di sicurezza dell’Onu ha sottolineato che la guerra in Darfur è più cruenta che mai.
Ma andiamo per gradi. La polizia sudanese ha arrestato, lo scorso 15 maggio, il leader dell'opposizione Hassan al Tourabi e il giornale del suo partito è stato chiuso con l'accusa di sostenere i ribelli del Darfur, che si contrappongono con le armi a Khartoum.
Non è la prima volta che l'islamista in passato vicino al presidente Omar al Bashir - fino alla rottura dei rapporti nel 1999-2000 - viene arrestato da quando ha fondato il Partito del Congresso popolare (Pcp).
Rabie Abdelati, responsabile del ministero per l'Informazione del Sudan e membro del partito al potere, il National congress party (Ncp), ha giustificato l'arresto di Tourabi e la chiusura del quotidiano ‘Rai al Chaab’, sostenendo che il governo abbia le prove di un complotto ordito dal leader dell’opposizione contro il presidente Bashir, supportato da alcuni “articoli - calunnia” del suo giornale che avevano l’intento di destabilizzare il paese.
Immediata la replica dei membri del Pcp: "Khartoum cerca di reprimere i dissidenti”.
A poco più di un mese dalle prime elezioni multipartitiche del paese negli ultimi 24 anni, svoltesi tra le proteste dei partiti di opposizione che avevano boicottato il voto e denunciato brogli e irregolarità, in Sudan è ripresa, più forte che mai. la repressione del diritto a manifestare la propria opposizione a Bashir e della libertà di stampa.
Tutto ciò a fronte del nuovo allarme lanciato dalle Nazioni Unite sul conflitto in Darfur.
“Nonostante alcuni progressi per ciò che concerne la sicurezza, gli scontri violenti tra forze governative e ribelli persistono, i civili continuano a morire o a fuggire dai propri villaggi per trovare rifugio nei campi profughi e le organizzazioni umanitarie continuano a essere bersaglio di gruppi criminali che assaltano le loro sedi e i loro convogli e rapiscono gli operatori”.
Questa, in sintesi, la situazione illustrata dal capo missione Unamid, Ibrahim Gambari al Consiglio di sicurezza dell’Onu in occasione dell’ultima relazione del 20 maggio sulla regione sudanese dove sette anni di conflitto hanno causato la morte di almeno 300.000 persone e costretto 2.700.000 a lasciare le loro case.
“Benché sul fronte sicurezza e protezione dei civili alcuni progressi siano stati compiuti, permangono considerevoli sacche di instabilità” ha affermato con fermezza il Force Commander in Darfur.
Altro che ‘conflitto a bassa intensità’, definizione usata dal predecessore di Gambari, il generale Martin Luther Agwai, lasciando l’incarico di comandante dell’Unamid meno di un anno fa. Tanto meno si può parlare di ‘guerra finita’, come annunciato dal presidente del Sudan che subito dopo la firma dell’accordo di massima per il ‘cessate il fuoco’ con il Jem del 24 febbraio scorso aveva dichiarato: “Il Darfur è ora in pace!”.
Ma la situazione, ad oggi, è ben diversa: lo dicono i fatti e gli osservatori internazionali nella regione.
“Il Processo di pacificazione a cui Unamid, sotto la guida del mediatore in Qatar, ha fornito un importante supporto, negli ultimi mesi è progredito ma rimane un profondo senso di sfiducia” ha aggiunto Gambari riferendosi ai colloqui UN-AU in corso a Doha fra il governo e vari gruppi ribelli.
Il pessimismo dell’inviato Onu, che nella sua relazione ha citato gli accordi quadro firmati tra il governo, il Movimento Giustizia e Uguaglianza (Jem) e il Movimento di liberazione e giustizia (lJm) - una coalizione di due gruppi minori che si sono uniti per avere maggiore peso nei colloqui di pace - scaturisce dalla mancata firma dell’accordo di pace vero e proprio, prevista il 15 marzo 2010 e che non è stata mai apposta.
Il Jem, infatti, ha sospeso la sua partecipazione al tavolo delle trattative di Doha all’inizio di questo mese a causa delle violazioni del ‘cessate il fuoco’ da parte dell’esercito sudanese e ha attaccato alcune sedi del Governo e diversi convogli di autocarri commerciali e militari scatenando la reazione di Khartoum che nel giro di pochi giorni ha causato la morte di 108 guerriglieri.
Gambari ha anche segnalato la ripresa (a dire il vero non si sono mai fermati…) dei combattimenti tra le forze governative e un altro gruppo ribelle, la fazione Abdul Wahid del Sudan Liberation Army (SLA), nonché gli scontri tra le tribù del Sud Darfur.
“Questi conflitti hanno causato notevoli perdite civili, lo sfollamento di varie comunità dell’area di Jebel Marra, e impedito la fornitura di aiuti alimentari e assistenza umanitaria”, ha sottolineato Gambari, invitando tutte le parti a facilitare l’accesso dei peacekeeper di Unamid e le Organizzazioni non governative ai siti dove si sono verificati i recenti combattimenti.
“In questo contesto, è con grande preoccupazione che evidenzio l’elevato rischio a cui è esposto il personale umanitario delle Nazioni Unite che continua ad essere bersaglio di attacchi e atti criminali” ha aggiunto, citando i numerosi attacchi contro la forza di pace, i rapimenti e i furti di auto e di altro materiale in dotazione alla missione.
“Per contrastare futuri episodi di aggressione – ha dovuto ammettere il comandante di Unamid - ho dato istruzioni alle nostre truppe e al contingente di polizia di rispondere con maggiore intensità agli attacchi. Ho anche chiarito, sia agli esponenti del governo sia al fronte di opposizione a Khartoum. che tali attacchi costituiscono crimini di guerra”.
In un comunicato ufficiale, il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha deplorato proprio ieri il potenziamento militare registrato da entrambe le parti in conflitto e i numerosi scontri delle ultime settimane e ha esortato tutti a rispettare il cessate il fuoco e a tornare al tavolo dei negoziati a Doha.
Nel suo rapporto sulla missione Gambari ha anche osservato che nonostante Unamid sia quasi interamente dispiegata, mancano gli equipaggiamenti ‘cruciali’ per accrescere la capacità delle sue unità militari e di polizia.
Il contingente della missione ha raggiunto quasi le 22 mila unità, mancano quindi solo 4mila uomini per arrivare ai 26mila ‘caschi blu’ previsti dalla risoluzione che due anni fa ha autorizzato la forza di pace.
Se gi elicotteri tattici sono arrivati, mancano ancora quelli per la perlustrazione a largo raggio, fondamentali per l’efficacia dell’operato del contingente in un'area vasta quattro volte l'Italia.
Il comandante di Unamid ha anche evidenziato l’importanza di creare un ambiente idoneo per il ritorno volontario degli sfollati nei campi profughi e dei rifugiati alle loro case spiegando che il ‘mantenimento’ di circa 2,3 milioni di persone nei campi di sfollati nel Darfur costituisca una bomba ad orologeria, come esperienze in altri paesi che hanno vissuto lunghi conflitti, vedi Libano e Gaza, hanno tragicamente dimostrato.
A margine della relazione al Consiglio di Sicurezza Gambari, incontrando i giornalisti, ha ribadito la necessità che gli abitanti del Darfur godano dei vantaggi e dei ‘dividendi’ sanciti dagli accordi di pace affinché possa partire la ricostruzione e lo sviluppo della loro terra, martoriata da troppo tempo da una guerra che, per il momento, sembra ancora lontana da una vera e duratura fine.