di Roberto Natale*
I ripensamenti sono sempre bene accetti, ma stavolta è impossibile considerarli vere aperture. Gli emendamenti al ddl Alfano annunciati venerdì dal PdL, in visto del dibattito che si aprirà domani pomeriggio nell’aula del Senato, non cambiano la sostanza del rischio-bavaglio. Le sanzioni a carico degli editori sono state ridotte di un terzo, ma è difficile esultare: l’importo massimo rimane pur sempre di 310mila euro, comunque sufficienti per “suggerire” al proprietario del giornale di diffidare pesantemente direttore e redazione dal pubblicare qualsiasi notizia troppo cara. E soprattutto non si può spacciare come grande conquista di libertà il fatto che in materia di cronaca giudiziaria si torni alla formulazione uscita dalla Camera, ripristinando la possibilità di pubblicare “per riassunto” il contenuto degli atti giudiziari prima dell’udienza preliminare e tenendo fermo il divieto totale di pubblicazione delle intercettazioni fino alla conclusione delle indagini preliminari, anche se i testi non sono più coperti dal segreto. E’questo il punto decisivo, che continua a motivare la nostra netta contrarietà: ciò che è pubblico perché è stato portato a conoscenza delle parti coinvolte deve anche poter essere pubblicabile; anche per non aprire la strada ad un’informazione allusiva o ricattatoria, in cui chi ha letto gli atti può mandare torbidi messaggi a mezzo stampa alle persone coinvolte nelle inchieste. Se l’esigenza è quella di difendere meglio la privacy, come dicono i sostenitori del provvedimento e come anche noi giornalisti vogliamo, è a portata di mano una soluzione perfettamente compatibile col nostro dovere di cronisti e col diritto dei cittadini di sapere: al momento in cui le carte dell’indagine stanno per diventare pubbliche, il magistrato di una “udienza-filtro”, sentite accusa e difesa, elimina dagli atti le parti (testi delle intercettazioni inclusi) che riguardano terze persone estranee o anche le persone sotto inchiesta, ma per aspetti privati che non hanno nesso con l’indagine. E’ su questo versante che talvolta l’informazione ha sbagliato, mettendo in pagina anche questioni intime che non erano notizie, ma gli errori possono essere evitati senza impedirci di raccontare i fatti di interesse pubblico. Il ministro Alfano continua a ripetere in forma di slogan che “la riforma garantisce la libertà di informazione”, ma evita di spiegare che col suo testo sarebbe rimasto ignoto il caso (la casa) Scajola e che dei trapianti infami della clinica Santa Rita di Milano si sarebbe saputo dopo anni. Argomenti così forti che quasi tutti i direttori dei giornali italiani si sono trovati uniti nell’annunciare che non verranno comunque meno al dovere di informare, “indipendentemente da multe, arresti e sanzioni”.
E’ la stessa unità che, sul diritto-dovere di cronaca, i giornalisti italiani chiedono alle loro rappresentanze. Perché non sempre è stato così, negli ultimi mesi: dalla grande manifestazione di ottobre in piazza del Popolo, che aveva mostrato la ricchezza dell’alleanza coi cittadini, il Segretario dell’Ordine nazionale aveva preso le distanze con una scelta polemica che certo non ha rafforzato la categoria. Come non l’ha rafforzata qualche timidezza di troppo, da parte dell’Ordine, su un tema che invece meritava e merita una vera e propria campagna pubblica. Ora è urgente recuperare un convinto impegno comune: la lunga battaglia contro il ddl Alfano, tra le aule del Parlamento italiano e - se sarà necessario - la Corte Europea di Strasburgo, può e deve essere vinta.
* Presidente Fnsi
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