Articolo 21 - ESTERI
Bahman e la vergogna di essere libero
di Marco Curatolo
È un giorno amaro, uno dei tanti, questo lunedì 31 maggio 2010, per la libertà di stampa nella Repubblica Islamica dell’Iran. Bahman Ahmadi Amoii, giornalista economico arrestato il 20 giugno 2009, poco più di una settimana dopo le contestate elezioni presidenziali, e la cui storia già abbiamo raccontato in queste pagine, torna oggi in prigione. Era stato temporaneamente rilasciato alla vigilia del Norooz, il capodanno persiano del 21 marzo, e ha perciò potuto trascorrere alcuni mesi accanto a sua moglie Jila Baniyaghoub, giornalista a sua volta, arrestata insieme a lui, ma liberata dopo un paio di mesi.
Bahman sapeva – e noi con lui – che la sua sarebbe stata una libertà a termine, che questo giorno crudele sarebbe arrivato: c’è da scontare una pena, divenuta nel frattempo definitiva, a 5 anni di carcere. Ma, come una verità oscena che ci si rifiuta di riconoscere, facevamo finta di non vedere. Ci bastava sapere che Bahman e Jila erano insieme, a casa loro, e ogni giorno di libertà ci sembrava un pezzo di vita e di gioia sottratto alla tirannia del mostro.
Due giorni fa, Bahman ci ha riportati nel mondo reale: ha annunciato online, con semplicità, il suo imminente ritorno in prigione. “Dovrei rientrare a Evin domani”, ha scritto. Ma “domani”, cioè domenica 30 maggio, il caso ha voluto che fosse anche fissata l’udienza del processo contro la moglie Jila presso la sezione 26 del tribunale rivoluzionario. “Voglio essere al suo fianco, perciò tornerò in carcere con un giorno di ritardo.”
È uno strano paese quello in cui un giornalista indipendente deve provare vergogna per il fatto d’essere in libertà e di vivere nella sua casa accanto alla donna che ama, perché vede che i migliori tra i suoi colleghi, i più coraggiosi, sono in carcere. L’Iran di Khamenei e Ahmadinejad, dei Guardiani della Rivoluzione e dei Basij, è questo strano paese. “In questi ultimi giorni mi sono sentito a disagio”, scrive infatti Bahman Ahmadi Amoii, “perché so che cari amici – studenti e giornalisti come me – si trovano in prigione in tristi e dure condizioni, mentre io sono fuori. Perciò è un sollievo rientrare.”
Tra gli amici, a Evin Bahman ritroverà Hengameh Shahidi, giornalista, 6 anni da scontare e un malanno al cuore che renderebbe inammissibile la sua detenzione in qualsiasi paese civile; Shiva Nazar Ahari, del Committee of Human Rights Reporters, circa 300 degli ultimi 365 giorni trascorsi (in due riprese) a marcire in galera solo perché si occupava di rilevare e segnalare le violazioni contro i diritti umani commessi dal regime; Majid Tavakoli, leader del movimento studentesco, in carcere da 6 mesi e mezzo, appena rientrato nella sezione generale di Evin dalla clinica della prigione dove era stato ricoverato d’urgenza dopo una settimana di sciopero della fame e della sete (motivo: l’essere stato rispedito in isolamento, dove ha trascorso la maggior parte del periodo di detenzione); Kouhyar Goudarzi, lui pure del Committe of Human Rights Reporters a a sua volta reduce da un devastante sciopero della fame che ha spinto le autorità a ricoverarlo e ad alimentarlo artificialmente. Bahman ritroverà molti altri i cui nomi le ragioni di spazio ci impediscono di ricordare.
Alcuni amici, però, Bahman non li ritroverà a Evin perché sono stati da tempo trasferiti nel carcere di Rajai Shahr nella città di Karaj, un penitenziario per delinquenti comuni dove prigionieri politici ai quali il regime riserva un trattamento “privilegiato” condividono celle e prigionia con criminali comuni, assassini e narcotrafficanti: un carcere da cui proprio in questi giorni sono arrivate prove e immagini di raccapriccianti torture e abusi contro i detenuti. Lì sono rinchiusi i giornalisti Isa Saharkhiz (le cui condizioni di salute sono da tempo definite in preoccupante aggravamento), Ahmad Zeidabadi e Masoud Bastani, tutti e tre arrestati tra giugno e luglio 2009, e perciò prossimi all’anno di prigionia. Petizioni, appelli, lettere non sono serviti a ottenere per lo meno il loro trasferimento a Evin.
Alcune settimane fa Mahsa Amrabadi, moglie di Masoud Bastani e collega giornalista anche lei (nonché imprigionata a sua volta l’estate scorsa dopo le elezioni), ha inviato una richiesta di aiuto: “Non lasciateci soli: sarebbe bello se le associazioni dei giornalisti italiani diramassero un comunicato di solidarietà con i colleghi iraniani in prigionia”. Chissà che l’imminenza del 12 giugno (anniversario delle elezioni contestate) non suggerisca una presa di posizione ferma e risoluta al neoletto Consiglio dell’Ordine dei giornalisti, nonché agli altri organismi di categoria.
Se qualcuno ci legge, batta un colpo.
Bahman sapeva – e noi con lui – che la sua sarebbe stata una libertà a termine, che questo giorno crudele sarebbe arrivato: c’è da scontare una pena, divenuta nel frattempo definitiva, a 5 anni di carcere. Ma, come una verità oscena che ci si rifiuta di riconoscere, facevamo finta di non vedere. Ci bastava sapere che Bahman e Jila erano insieme, a casa loro, e ogni giorno di libertà ci sembrava un pezzo di vita e di gioia sottratto alla tirannia del mostro.
Due giorni fa, Bahman ci ha riportati nel mondo reale: ha annunciato online, con semplicità, il suo imminente ritorno in prigione. “Dovrei rientrare a Evin domani”, ha scritto. Ma “domani”, cioè domenica 30 maggio, il caso ha voluto che fosse anche fissata l’udienza del processo contro la moglie Jila presso la sezione 26 del tribunale rivoluzionario. “Voglio essere al suo fianco, perciò tornerò in carcere con un giorno di ritardo.”
È uno strano paese quello in cui un giornalista indipendente deve provare vergogna per il fatto d’essere in libertà e di vivere nella sua casa accanto alla donna che ama, perché vede che i migliori tra i suoi colleghi, i più coraggiosi, sono in carcere. L’Iran di Khamenei e Ahmadinejad, dei Guardiani della Rivoluzione e dei Basij, è questo strano paese. “In questi ultimi giorni mi sono sentito a disagio”, scrive infatti Bahman Ahmadi Amoii, “perché so che cari amici – studenti e giornalisti come me – si trovano in prigione in tristi e dure condizioni, mentre io sono fuori. Perciò è un sollievo rientrare.”
Tra gli amici, a Evin Bahman ritroverà Hengameh Shahidi, giornalista, 6 anni da scontare e un malanno al cuore che renderebbe inammissibile la sua detenzione in qualsiasi paese civile; Shiva Nazar Ahari, del Committee of Human Rights Reporters, circa 300 degli ultimi 365 giorni trascorsi (in due riprese) a marcire in galera solo perché si occupava di rilevare e segnalare le violazioni contro i diritti umani commessi dal regime; Majid Tavakoli, leader del movimento studentesco, in carcere da 6 mesi e mezzo, appena rientrato nella sezione generale di Evin dalla clinica della prigione dove era stato ricoverato d’urgenza dopo una settimana di sciopero della fame e della sete (motivo: l’essere stato rispedito in isolamento, dove ha trascorso la maggior parte del periodo di detenzione); Kouhyar Goudarzi, lui pure del Committe of Human Rights Reporters a a sua volta reduce da un devastante sciopero della fame che ha spinto le autorità a ricoverarlo e ad alimentarlo artificialmente. Bahman ritroverà molti altri i cui nomi le ragioni di spazio ci impediscono di ricordare.
Alcuni amici, però, Bahman non li ritroverà a Evin perché sono stati da tempo trasferiti nel carcere di Rajai Shahr nella città di Karaj, un penitenziario per delinquenti comuni dove prigionieri politici ai quali il regime riserva un trattamento “privilegiato” condividono celle e prigionia con criminali comuni, assassini e narcotrafficanti: un carcere da cui proprio in questi giorni sono arrivate prove e immagini di raccapriccianti torture e abusi contro i detenuti. Lì sono rinchiusi i giornalisti Isa Saharkhiz (le cui condizioni di salute sono da tempo definite in preoccupante aggravamento), Ahmad Zeidabadi e Masoud Bastani, tutti e tre arrestati tra giugno e luglio 2009, e perciò prossimi all’anno di prigionia. Petizioni, appelli, lettere non sono serviti a ottenere per lo meno il loro trasferimento a Evin.
Alcune settimane fa Mahsa Amrabadi, moglie di Masoud Bastani e collega giornalista anche lei (nonché imprigionata a sua volta l’estate scorsa dopo le elezioni), ha inviato una richiesta di aiuto: “Non lasciateci soli: sarebbe bello se le associazioni dei giornalisti italiani diramassero un comunicato di solidarietà con i colleghi iraniani in prigionia”. Chissà che l’imminenza del 12 giugno (anniversario delle elezioni contestate) non suggerisca una presa di posizione ferma e risoluta al neoletto Consiglio dell’Ordine dei giornalisti, nonché agli altri organismi di categoria.
Se qualcuno ci legge, batta un colpo.
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