di Ottavio Olita
Operai, insegnanti, precari, giovani lavoratori - vittime designate di quella parola elegante ma che nega il futuro: “flessibilità”-, immigrati. Quando ho letto il preoccupato appello di Giuseppe Giulietti su come i media dovrebbero porsi rispetto alla vicenda Fiat-Pomigliano-Sindacati ho pensato a quante categorie ‘deboli’ della società meriterebbero molta più attenzione e comprensione oltre che rispetto da parte dei giornalisti. E in particolare da parte di quella componente della categoria garantita da contratti di lavoro conquistati con lotte che hanno badato, soprattutto nell’ultimo quindicennio, più ai principi che alle ricadute economiche. Quando si hanno garanzie professionali, assistenziali, contributive si fatica a capire un mondo del lavoro stravolto dal progressivo, costante e continuo svuotamento di queste fondamentali forme di garanzia del diritto. Una quotidiana, strisciante trasformazione che rischia di non far più notizia, a meno che non venga imposto un formidabile braccio di ferro. E questo di Pomigliano d’Arco ha tutte le caratteristiche del conflitto imposto da quello che un tempo si chiamava ‘padronato’, che vuole assolutamente vincere ostentando così forza e determinazione. Vuole vincere perché poi si possa urlare “Ed ora 10, 100, 1000 Pomigliano”. E non solo nelle fabbriche.
Ho pensato alla Rai. Ad una Rai della quale si parla sempre meno come Servizio Pubblico, di una Rai della quale il Presidente del Consiglio si ostina a dire Televisione di Stato, non Pubblica, nel tentativo di far passare la sua idea, che è quella di una Rai diretta portavoce dell’Esecutivo, che deve raccontare un Paese bello, soddisfatto, contento e ottimista. Non una Rai che sia al servizio del cittadino, ma un’azienda che trasmetta solo l’immagine del Paese voluta da chi lo governa. Una Rai che in parte già oggi è guidata perché diventi così, ma che per fortuna continua a resistere in alcune parti determinanti del suo sistema informativo.
Cosa avverrebbe il giorno in cui, continuando ad essere gestita al ribasso, senza prospettive di sviluppo, di sponda alla concorrenza privata – come hanno coraggiosamente denunciato i dirigenti associati nell’Adrai – quest’azienda finisse in picchiata dal punto di vista economico? Cosa risponderei al Cavaliere che, pur di non chiuderla e quindi di farmi mantenere il posto di lavoro che mi piace tanto, vestendo i panni del Salvatore, mi chiedesse di rinunciare alla battaglia per realizzare un Servizio Pubblico adeguato alle esigenze dell’Italia e mi imponesse l’accettazione della logica della Televisione di Stato da Minculpop o da Politburo? Senza necessariamente voler ricorrere ad una parola forte – ‘Ricatto’ –, la mia condizione verrebbe ad essere quella di chi si trova stretto in una insopportabile tenaglia: rinunciare ai propri principi ideali pur di continuare a lavorare, per cercare di dare un futuro economico alla propria famiglia; oppure respingere con sdegno quella irricevibile richiesta.
E ancora. Siamo proprio certi che quella scelta dovrebbe essere proposta soltanto a me, dipendente dell’azienda, o non anche a tutti gli italiani utenti del servizio pubblico? Se ci si pensa bene è un po’ la stessa condizione degli operai della Fiat. Perché una scelta di tale importanza e gravità deve pesare solo sulle loro spalle, visto che vengono rimessi in discussione i risultati di decenni di lotte operaie per migliorare le condizioni dei lavoratori di tutte le imprese?
La battaglia per i principi fondamentali è passatista e vetero? Io non lo ritengo affatto, tanto che, dal giorno in cui gli operai di Pomigliano, obtorto collo accetteranno l’accordo, penso che si potrebbe predisporre un osservatorio per analizzare tutto quello che l’applicazione delle nuove norme determinerà in fabbrica. Potremo capire da dati certi se quello che sembra l’ennesimo attacco allo svuotamento dei diritti costituzionali senza formalmente toccare la Carta è reale oppure è solo un allarme ingiustificato.