Articolo 21 - ESTERI
Isa Saharkhiz, un anno da ostaggio del regime
di Marco Curatolo
Esattamente un anno fa, in queste ore, in qualche luogo sperduto del nord dell’Iran, Isa Saharkhiz scriveva al computer il suo ultimo pezzo da giornalista in fuga. Da settimane gli sgherri del regime lo stavano braccando costringendolo a nascondersi, ad onta della sua natura di uomo fiero e coraggioso. Non poteva lasciare il paese perché già da tempo gli era stato vietato di espatriare. Eppure, anche con il fiato della polizia segreta sul collo, Saharkhiz non rinunciava a pubblicare i suoi articoli sul sito “Roozonline”, per far giungere la sua parola di incitamento e di speranza agli iraniani, e alle autorità il suo sdegno per i brogli elettorali con i quali era stata costruita la vittoria di Ahmadinejad e la sconfitta di Mousavi.
Il 20 giugno gli agenti avevano fatto irruzione in casa sua, a Tehran, per arrestarlo. Avevano messo l’appartamento a soqquadro, lo avevano rovistato e perquisito in lungo e in largo, minacciando Mahtab, la figlia diciannovenne; ma Saharkhiz non c’era. Era cominciato così l’inseguimento. In un’intervista rilasciata in quei giorni al settimanale tedesco “Der Spiegel”, Saharkhiz raccontava: “Sono in fuga. Cambio casa in continuazione, tengo acceso il cellulare non più di un’ora al giorno per non essere rintracciato”. E mentre interpretava il ruolo della preda dal destino segnato, non smetteva di lavorare. Il suo ultimo pezzo si intitolò “Benvenuto fronte verde della speranza”. «I membri di questo fronte – scrive Isa Saharkhiz il 1° luglio 2009 – sia quelli che sono nel carcere di Evin e negli altri centri di detenzione del paese (segreti e non), sia quelli che si trovano in esilio nelle maggiori capitali internazionali, stanno fronteggiando il ‘fronte nero del golpe’ mostrando al mondo una capacità di resistenza stupefacente e creativa. Forse il compito dei membri di questo fronte è quello di annunciare ufficialmente la sua nascita e la sua esistenza inviando messaggi di congratulazioni al presidente legittimo Mir Hossein Mousavi, cosi ché questi possa a sua volta agevolmente formare e annunciare il suo ‘governo ombra’ e tenersi pronto per il giorno dopo la caduta di Ahmadinejad».
48 ore più tardi, Isa Saharkhiz venne localizzato grazie alle sofisticate tecnologie satellitari di tracciamento vendute da Nokia e Siemens ad Ahmadinejad e ai guardiani della rivoluzione. Catturandolo, gli agenti lo picchiarono selvaggiamente e gli ruppero parecchie costole, come per vendicarsi della fatica che quell’arresto era loro costata. Per settimane Saharkhiz fu posto in isolamento in luogo ignoto e nessuno, nemmeno la sua famiglia, sapeva dove si trovasse. Non riusciva dormire a causa dei dolori al petto, non mangiava, rifiutava di rispondere agli interrogatori. Infine gli fu concesso di fare una telefonata al figlio Mehdi, che vive a New York: “Non ci rivedremo presto”, gli disse. Aveva ragione.
È passato un anno da quando Isa Saharkhiz ha smesso d’essere un giornalista (e un cittadino) libero, per diventare l’ennesimo prigioniero politico della represssione post-elettorale nella Repubblica Islamica dell’Iran. Tra i tanti “ostaggi di stato”, Saharkhiz è uno di quelli contro cui il regime si è maggiormente accanito. Ha trascorso questi 365 giorni tra il carcere di Evin a Tehran e quello di Rajai Shahr, nella città di Karaj. Rajai Shahr è un nome che, persino più di Evin, evoca per gli iraniani pensieri sinistri: torture, efferatezze, abusi di ogni tipo. È una prigione in cui vengono per lo più reclusi, in condizioni disumane, condannati per reati comuni e ritenuti socialmente pericolosi. Quando un prigioniero politico viene spedito a Rajai Shahr è perché il regime vuole rendergli la vita impossibile. A Rajai Shahr non sono stati infrequenti i casi di aggressione contro prigionieri politici da parte di altri detenuti: e che questi “incidenti” siano architettati e fomentati dalle stesse autorità carcerarie è più che un sospetto. Mansour Osanloo, storico capo del sindacato dei conducenti di autobus, si trova a Rajai Shahr dal 2007 e ed è stato più volte vittima di queste violenze. Nello stesso carcere sono rinchiusi anche altri due giornalisti (di cui abbiamo già parlato in queste pagine): Ahmad Zeidabadi e Masoud Bastani. A Rajai Shahr Isa Saharkhiz è arrivato senza una valida ragione legale - del resto dopo un anno di prigionia non ha ancora subito alcun processo - ma se si osserva con attenzione il suo curriculum non si fa fatica a capire perché si trovi lì.
57 anni, per lungo tempo responsabile della sede IRNA (l’agenzia di stato iraniana) a New York, un passato da stretto collaboratore di Khatami - che lo volle, durante la sua amministrazione, nel ministero della cultura, a capo del settore pubblicazioni interne - Saharkhiz è stato nella seconda metà degli anni ’90 uno dei principali fautori della cosiddetta “primavera del giornalismo”. Ha incoraggiato e sostenuto la formazione di organismi e associazioni di categoria, ed è stato tra i fondatori della Associazione per la difesa della libertà di stampa. Quando il fronte conservatore ha preso il sopravvento e spazzato via i sogni di libertà, peraltro appena abbozzati, di quella breve primavera, quando in Iran i giornali hanno ricominciato ad essere chiusi e censurati e i giornalisti arrestati o sospesi dalla professione, Saharkhiz non ha esitato ad attaccare frontalmente la guida suprema dell’Iran in persona, l’ayatollah Khamenei. Ha criticato la concentrazione del potere nelle sue mani e imputato alla sua personale responsabilità il ruolo che gruppi paramilitari e bande armate hanno nel paese come strumenti di oppressione e di violenza. Saharkhiz, già in passato processato, condannato e sospeso dalla professione, ha sostenuto durante la campagna elettorale del 2009 il candidato di opposizione Mehdi Karoubi.
Se scriviamo di Isa Saharkhiz oggi non è soltanto per ricordare l’anniversario del suo ultimo articolo e del suo arresto (in Iran gli arresti per ragioni politiche si susseguono ogni giorno, sarebbe impossibile tener dietro a tutti gli anniversari), ma anche perché le sue condizioni di salute, a Rajai Shahr, sono di recente precipitate. Saharkhiz soffre di gravi problemi di pressione e di frequenti dolori al petto, e avrebbe bisogno di assistenza medica, cure e di un’alimentazione controllata che in quel carcere non è possibile garantirgli. Nel corso delle ultime settimane è collassato per ben due volte, senza peraltro che questo abbia spinto le autorità a ricoverarlo in ospedale. Qualche giorno nell’infermeria della prigione e poche pillole sono stato l’unico soccorso che gli è stato prestato. La distanza di Karaj da Tehran rende inoltre difficili e più rare le visite dei familiari, problema comune a tutti i detenuti di Rajai Shahr.
È il prezzo che costano, nella Repubblica Islamica dell’Iran, parole come queste: «Dopo vent’anni di potere assoluto, Ali Khamenei si sta incamminando lungo la stessa discesa dell’ultimo Shah di Persia, Mohammad Reza Pahlavi. Il leader supremo ha scelto la strada della tirannia, che i popoli dell’Iran e del mondo intero hanno già parecchie volte gettato nella spazzatura della storia».
Firmato: Isa Saharkhiz, esattamente un anno fa.
Il 20 giugno gli agenti avevano fatto irruzione in casa sua, a Tehran, per arrestarlo. Avevano messo l’appartamento a soqquadro, lo avevano rovistato e perquisito in lungo e in largo, minacciando Mahtab, la figlia diciannovenne; ma Saharkhiz non c’era. Era cominciato così l’inseguimento. In un’intervista rilasciata in quei giorni al settimanale tedesco “Der Spiegel”, Saharkhiz raccontava: “Sono in fuga. Cambio casa in continuazione, tengo acceso il cellulare non più di un’ora al giorno per non essere rintracciato”. E mentre interpretava il ruolo della preda dal destino segnato, non smetteva di lavorare. Il suo ultimo pezzo si intitolò “Benvenuto fronte verde della speranza”. «I membri di questo fronte – scrive Isa Saharkhiz il 1° luglio 2009 – sia quelli che sono nel carcere di Evin e negli altri centri di detenzione del paese (segreti e non), sia quelli che si trovano in esilio nelle maggiori capitali internazionali, stanno fronteggiando il ‘fronte nero del golpe’ mostrando al mondo una capacità di resistenza stupefacente e creativa. Forse il compito dei membri di questo fronte è quello di annunciare ufficialmente la sua nascita e la sua esistenza inviando messaggi di congratulazioni al presidente legittimo Mir Hossein Mousavi, cosi ché questi possa a sua volta agevolmente formare e annunciare il suo ‘governo ombra’ e tenersi pronto per il giorno dopo la caduta di Ahmadinejad».
48 ore più tardi, Isa Saharkhiz venne localizzato grazie alle sofisticate tecnologie satellitari di tracciamento vendute da Nokia e Siemens ad Ahmadinejad e ai guardiani della rivoluzione. Catturandolo, gli agenti lo picchiarono selvaggiamente e gli ruppero parecchie costole, come per vendicarsi della fatica che quell’arresto era loro costata. Per settimane Saharkhiz fu posto in isolamento in luogo ignoto e nessuno, nemmeno la sua famiglia, sapeva dove si trovasse. Non riusciva dormire a causa dei dolori al petto, non mangiava, rifiutava di rispondere agli interrogatori. Infine gli fu concesso di fare una telefonata al figlio Mehdi, che vive a New York: “Non ci rivedremo presto”, gli disse. Aveva ragione.
È passato un anno da quando Isa Saharkhiz ha smesso d’essere un giornalista (e un cittadino) libero, per diventare l’ennesimo prigioniero politico della represssione post-elettorale nella Repubblica Islamica dell’Iran. Tra i tanti “ostaggi di stato”, Saharkhiz è uno di quelli contro cui il regime si è maggiormente accanito. Ha trascorso questi 365 giorni tra il carcere di Evin a Tehran e quello di Rajai Shahr, nella città di Karaj. Rajai Shahr è un nome che, persino più di Evin, evoca per gli iraniani pensieri sinistri: torture, efferatezze, abusi di ogni tipo. È una prigione in cui vengono per lo più reclusi, in condizioni disumane, condannati per reati comuni e ritenuti socialmente pericolosi. Quando un prigioniero politico viene spedito a Rajai Shahr è perché il regime vuole rendergli la vita impossibile. A Rajai Shahr non sono stati infrequenti i casi di aggressione contro prigionieri politici da parte di altri detenuti: e che questi “incidenti” siano architettati e fomentati dalle stesse autorità carcerarie è più che un sospetto. Mansour Osanloo, storico capo del sindacato dei conducenti di autobus, si trova a Rajai Shahr dal 2007 e ed è stato più volte vittima di queste violenze. Nello stesso carcere sono rinchiusi anche altri due giornalisti (di cui abbiamo già parlato in queste pagine): Ahmad Zeidabadi e Masoud Bastani. A Rajai Shahr Isa Saharkhiz è arrivato senza una valida ragione legale - del resto dopo un anno di prigionia non ha ancora subito alcun processo - ma se si osserva con attenzione il suo curriculum non si fa fatica a capire perché si trovi lì.
57 anni, per lungo tempo responsabile della sede IRNA (l’agenzia di stato iraniana) a New York, un passato da stretto collaboratore di Khatami - che lo volle, durante la sua amministrazione, nel ministero della cultura, a capo del settore pubblicazioni interne - Saharkhiz è stato nella seconda metà degli anni ’90 uno dei principali fautori della cosiddetta “primavera del giornalismo”. Ha incoraggiato e sostenuto la formazione di organismi e associazioni di categoria, ed è stato tra i fondatori della Associazione per la difesa della libertà di stampa. Quando il fronte conservatore ha preso il sopravvento e spazzato via i sogni di libertà, peraltro appena abbozzati, di quella breve primavera, quando in Iran i giornali hanno ricominciato ad essere chiusi e censurati e i giornalisti arrestati o sospesi dalla professione, Saharkhiz non ha esitato ad attaccare frontalmente la guida suprema dell’Iran in persona, l’ayatollah Khamenei. Ha criticato la concentrazione del potere nelle sue mani e imputato alla sua personale responsabilità il ruolo che gruppi paramilitari e bande armate hanno nel paese come strumenti di oppressione e di violenza. Saharkhiz, già in passato processato, condannato e sospeso dalla professione, ha sostenuto durante la campagna elettorale del 2009 il candidato di opposizione Mehdi Karoubi.
Se scriviamo di Isa Saharkhiz oggi non è soltanto per ricordare l’anniversario del suo ultimo articolo e del suo arresto (in Iran gli arresti per ragioni politiche si susseguono ogni giorno, sarebbe impossibile tener dietro a tutti gli anniversari), ma anche perché le sue condizioni di salute, a Rajai Shahr, sono di recente precipitate. Saharkhiz soffre di gravi problemi di pressione e di frequenti dolori al petto, e avrebbe bisogno di assistenza medica, cure e di un’alimentazione controllata che in quel carcere non è possibile garantirgli. Nel corso delle ultime settimane è collassato per ben due volte, senza peraltro che questo abbia spinto le autorità a ricoverarlo in ospedale. Qualche giorno nell’infermeria della prigione e poche pillole sono stato l’unico soccorso che gli è stato prestato. La distanza di Karaj da Tehran rende inoltre difficili e più rare le visite dei familiari, problema comune a tutti i detenuti di Rajai Shahr.
È il prezzo che costano, nella Repubblica Islamica dell’Iran, parole come queste: «Dopo vent’anni di potere assoluto, Ali Khamenei si sta incamminando lungo la stessa discesa dell’ultimo Shah di Persia, Mohammad Reza Pahlavi. Il leader supremo ha scelto la strada della tirannia, che i popoli dell’Iran e del mondo intero hanno già parecchie volte gettato nella spazzatura della storia».
Firmato: Isa Saharkhiz, esattamente un anno fa.
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