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“Fiori di pace” a Romallo. Giovani israeliani e palestinesi si incontrano in Italia
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di Gian Mario Gillio*

“Fiori di pace” a Romallo. Giovani israeliani e palestinesi si incontrano in Italia

A poco più di un mese è inevitabile chiedersi le ragioni che hanno spinto il governo israeliano al blitz contro la “Freedom flottilla” che intendeva portare aiuti umanitari alla popolazione di Gaza. L’assalto, l’ultimo così eclatante, ha provocato nove morti, una quarantina di feriti tra i passeggeri e una decina di feriti tra i soldati. Il fatto ha delineato scenari geopolitici nuovi. Quale ruolo giocherà la Turchia nello scacchiere mediorientale? È realistico ipotizzare un nuovo asse Libano, Turchia, Siria? Domande che si pongono gli adulti, i giornalisti e gli analisti. Ma cosa pensano i giovani israeliani e palestinesi che vivono, loro malgrado, l’«eredità» di questo conflitto? E cosa sanno i ragazzi italiani? Romallo, Romàl in nones, è un piccolo comune di 602 abitanti della provincia di Trento dove in questi giorni sono giunti da Gerusalemme 12 giovani di età compresa tra i 14 e i 18 anni per il progetto “Fiori di pace” promosso dalla rivista “Confronti” e realizzato dall’Associazione Arca. «La domanda che ci siamo posti – dice la presidente Lucia Busetti –  è questa: chi sono i primi a pagare questo conflitto che da più di sessant’anni genera dolore e vittime? Da tre anni invitiamo questi ragazzi in un luogo diverso per farli incontrare e discutere insieme, un modo per esorcizzare le paure del conflitto».
Il contatto tra i due gruppi non è stato facile. Partiti da Tel Aviv si sono visti per la prima volta a Fiumicino, scalo verso Verona. I gruppi in attesa al gate non volevano proprio incontrarsi, «it’s better tomorrow» dicevano. I palestinesi stavano da una parte e gli israeliani dall’altra, si cercavano con lo sguardo, tra curiosità e timore. Coinvolti da associazioni come “Hand in Hand”, la scuola bilingue della Galilea,  l’"African Community Society" e la "Library on Wheels for Nonviolence and Peace” . «I ragazzi che frequentano Hand in Hand sono abituati a dialogare tra loro – ha detto Orna Eylat, direttore, di parte israeliana, dell’organizzazione –, tuttavia la situazione è sempre più difficile, molti studenti stanno abbandonando la scuola». Non è facile soprattutto per le associazioni palestinesi: “Fatichiamo a trovare giovani disponibili a incontrarsi con quello che si considera “il nemico””, ha ribadito il leader palestinese Kayed Sharabati.
Odio, giochi di potere, privazione d’identità, insicurezza, prigionia, disperazione, le parole associate al conflitto. «Questo – ha rilevato lo psicologo Mustafa Qossoqsi – non è un  progetto di massa, è un’esperienza che i ragazzi portano e diffondono nei territori, dove vivono una realtà insostenibile anche per il loro sviluppo psicologico. Senza aiuto sono  perennemente candidati ad essere traumatizzati. Farli incontrare è un modo di far accrescere in loro la resilienza». La condizione dei giovani israeliani sottoposti alla minaccia di attentati terroristici e dall’atra la situazione dei palestinesi stretti dalla violenza dell’occupazione e dalla propaganda di fazioni estremiste rende difficile parlare di pace. «Da qui emerge l’importanza di programmi educativi che consentano di incontrare l’altro direttamente, fuori dagli schemi di pregiudizio correnti» ha rilevato il prof. Marco Luchi, coordinatore di Arca.
«Il 16 marzo scorso – dice Anas, giovane palestinese –  c’era tensione a Gerusalemme, mio fratello era a casa con me, tuttavia è stato arrestato due giorni dopo, fermato per due settimane e allontanato per un mese. Avviene spesso, ogni tanto i soldati arrivano e arrestano, dicono che sono misure precauzionali per la sicurezza». «Noi invece – dice Itai, giovane israeliano – abbiamo sempre paura di possibili attentati, ma sentiamo anche la tristezza di un conflitto che non riusciamo a comprendere e viviamo tutta la disperazione di questa situazione».
Agli incontri hanno partecipato molti studenti: «Per noi è difficile entrare nella loro realtà – ha detto Jessica – noi conosciamo questa guerra solo grazie alle notizie sui giornali». Valentina: «Noi siamo abituati ad avere tutto e facilmente. Per voi la libertà è una conquista, per noi una condizione normale» e Virginia «Se penso che per noi la reclusione è essere costretti a stare in casa una sera, magari per la punizione dei genitori…». Il progetto “Fiori di pace”, prevede oltre all’analisi del conflitto, un modo per esorcizzare paure e diffidenza, momenti ludici condivisi, gite, partite di pallone, incontri con associazioni umanitarie e culturali. I prossimi appuntamenti di “Fiori di pace” a Verona con l’Associazione “Il Germoglio” e al campo invernale della Chiesa cristiana Avventista del 7° giorno.

* direttore di Confronti


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