di Daniela de Robert
Il detenuto suicida numero 34 del 2010 si chiamava Antimo Spada, aveva 35 anni e doveva scontare ancora 9 anni di galera, era detenuto penitenziario “Lorusso e Cotugno” di Torino. Domenica pomeriggio aveva deciso di farla finita. Si era impiccato nella sua cella. Soccorso dagli agenti della polizia penitenziaria era stato ricoverato in ospedale. Qui è morto Mercoledì.
Con lui nel mese di Luglio i morti in carcere hanno fatto il giro di boa, arrivando a quota centouno. Del numero novantanove e cento però non possiamo dire neanche il nome. Quel che si sa è che si trovavano nel carcere napoletano di Secondigliano e che probabilmente sono morti per malattia. Due morti anonimi, come i tanti immigrati i cui corpi vengono ripescati nel mare Mediterraneo. Senza un nome, un’età, un ricordo.
Il numero novantotto, anche lui deceduto in questo caldo mese di Luglio, si chiamava Hugo Cidade, aveva 47 anni, era argentino ed era detenuto nella Casa Circondariale Nuovo Complesso Rebibbia di Roma. È morto per una cirrosi epatica per la quale sembra che i medici del carcere avessero già da tempo dichiarato l’incompatibilità con il regime carcerario.
In questa calda estate del 2010, nonostante le circolari del DAP per “fronteggiare il sovraffollamento e la stagione estiva e garantire adeguate condizioni di vita per la popolazione detenuta”, la vita dentro è sempre più difficile. A volte morire sembra essere la soluzione. Per altri invece, la morte forse poteva essere evitata o poteva arrivare a casa, vicino ai propri cari, rendendola forse meno dolorosa e meno ingiusta.