di Ambra Murè
Qual è il confine tra il carcere e la prigione? La guida, come al solito, è la nostra Costituzione, che, all’articolo 13 recita: “La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dall'autorità giudiziaria e nei soli casi e MODI previsti dalla legge”. E quali sono i modi in cui i detenuti vengono custoditi nelle nostre carceri? Per capirlo, bastano una parola e due numeri. La parola è: sovraffollamento. I numeri sono quelli dei detenuti effettivi (molti dei quali in custodia cautelare, dunque ancora in attesa di giudizio), messi a confronto con quelli previsti dalla capienza regolamentare dell’attuale edilizia carceraria: 65.000 contro 43.000. Che vuol dire: 22.000 detenuti in più di quelli che potrebbero starci. Che vuol dire, ancora: zero privacy, poco spazio, brandine che si moltiplicano nelle celle, agenti penitenziari insufficienti (non parliamo poi degli educatori!), impossibilità di recuperare i detenuti, tensioni, risse, proteste e, qualche volta, suicidi. 66 dall’inizio dell’anno, secondo l’Osservatorio permanente sulle morti in carcere. Ancora tre e l’Italia avrà superato il suo record personale del 2001: 69 suicidi.
“Mai come in questo momento – sottolinea l’Osservatorio in una nota - appare necessaria e inderogabile una riflessione sulle cause che determinano il maggiore sovraffollamento delle carceri nella storia della Repubblica”. Ma cosa c’entra l’emergenza del sovraffollamento con i suicidi? Secondo la sottosegretaria alla Giustizia, Maria Elisabetta Alberti Casellati, un bel niente: “Io non credo che il problema delle morti in carcere sia collegato al sovraffollamento. Nonostante il sovraffollamento, in Italia la media di suicidi in carcere è sotto quella europea. Ogni 10 mila detenuti, la media italiana di suicidi è di 11,1. Contro la media europea, che è di 12,4”. Da cosa dipende allora questa recente escalation di detenuti che decidono di togliersi la vita o, peggio, di lasciarsi morire in carcere (come il tunisino Sami Mbarka, morto a Pavia dopo 45 giorni di sciopero della fame)? “Dalle fragilità psicologiche che il carcere sicuramente accentua”, sostiene la sottosegretaria.
La Corte Europea dei diritti dell’uomo quest’estate ha condannato l’Italia a risarcire un detenuto bosniaco “per i danni morali subiti a causa del sovraffollamento della cella in cui è stato recluso per alcuni mesi nel carcere di Rebibbia”. Lui, come – si presume – molti altri, secondo la Corte è stato vittima di “trattamenti inumani e degradanti”.
E questi, ha ragione la Sottosegretaria, possono avere una controindicazione: “accentuano le fragilità psicologiche” di molte persone.
Ascolta l'intervista alla sottosegretaria Alberti Casellati