di Daniela de Robert
Eravamo rimasti a uno. Un suicidio, il primo del 2010, nelle affollate carceri italiane. È successo il 2 gennaio. A togliersi la vita è stato Pierpaolo di 39 anni. Tre giorni dopo, il 5 gennaio, è stata la volta di Celeste, 62 anni. E poi, il 7 gennaio, si sono impiccati alle sbarre delle loro celle in due: Giacomo di 49 anni e Antonio di 28. In meno di una settimana il dato si è quadruplicato.
A quei direttori che amano riempire i loro giornali e telegiornali di record, eccone due: quattro suicidi in una settimana e due in un giorno solo.
La befana ha portato via le feste, ma non il dolore, l’angoscia e l’invivibilità di chi è costretto a vivere, in nome della giustizia, in carceri illegali che non rispettano i diritti elementari. La prima condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo nei confronti dell’Italia per trattamenti degradanti e inumani è arrivata ad agosto: lo spazio vitale era inferiore agli standard previsti dal Comitato per la prevenzione della tortura. Ma tanto in Italia il reato di tortura non è neanche previsto dal codice penale, né sembra stare a cuori ai tanti politici che invocano più giustizia e tolleranza zero.
Il flusso delle carcerazioni non diminuisce, mentre la discussione del governo è ferma alla proposta di un piano edilizio: nuovi carceri per nuovi e vecchi detenuti. Intanto si ammassano corpi in spazi insufficienti, in strutture inadeguate, in ambienti a volte malsani.
Chissà se i Parlamentari che a Ferragosto visitarono le carceri sotto i riflettori dei media, si ricordano che dietro le sbarre hanno incontrato delle persone. Chissà se si chiedono se tra i settantadue morti suicidi del 2009 e i quattro del 2010 c’è qualcuno con cui avevano parlato, a cui avevano forse promesso interessamento, che li aveva colpiti per quello sguardo vuoto, silenzioso, neanche più disperato.
I reati diminuiscono ci dicono con soddisfazione le forze dell’ordine. I detenuti no. E a quanto pare neanche i suicidi. A qualcuno interessa?