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Strage di Bologna, 30 anni dopo. L'orrore, le inchieste, i depistaggi
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di Roberto Scardova

Strage di Bologna, 30 anni dopo. L'orrore, le inchieste, i depistaggi

Il boato si udì anche in via Alessandrini, persino dentro gli studi insonorizzati della vecchia sede Rai. Chiamammo subito i vigili del fuoco: in stazione, ci dissero, è crollata una pensilina, ci sono morti... Il collega Romano Zanarini ed io ci precipitammo fuori della redazione, buttandoci a correre lungo via Indipendenza, seguiti a stento dall'operatore Romano Prati impacciato dalla telecamera. L'orrore: sul piazzale antistante la stazione macerie e brandelli di corpi umani erano sparsi ovunque, un odore forte e sconosciuto - l'esplosivo combusto,sapemmo poi -  impregnava l'aria, le prime autoambulanze coprivano con le sirene spiegate ogni altro rumore...  
Con Romano Prati eravamo arrivati a Bologna col treno proprio mezz'ora prima, avevamo attraversato la stazione affollata di gente agitata per le vacanze, il bar era preso d'assalto per un caffè o un'acqua minerale, eravamo passati accanto ai taxi in fila ordinata davanti alla sala d'aspetto... Ora non c'era più nulla. Né la stazione, né il caffè. Né i taxi. Con uno straccio, un taxista in stato di choc grondava sangue ma insisteva meccanicamente a spolverare la propria macchina, rottame informe giallastro sotto travi di ferro e di cemento.   
Nessuno faceva caso a noi. Filmammo, a nostra volta muti e choccati, i primi soccorsi. Le barelle coi feriti. I cadaveri pietosamente ricoperti da lenzuola bianche. I giovani soldati che cominciavano con le mani nude a scavare tra le macerie alla ricerca di sopravvissuti. Poco dopo arrivò il prefetto: i giornalisti lo accerchiarono. “Forse una caldaia…” disse. Un ferroviere conosceva me e Zanarini, e ci sussurrò  “…ma quale caldaia. Qui non ce ne sono”. 
Presi il coraggio a due mani, e gridai al prefetto “ma quale caldaia, prefetto. Questa è una bomba”. Lui mi guardò, e tacque. Ci spostammo per far passare l'autobus numero 37, coi finestrini coperti da lenzuola. Andava all'obitorio, carico di cadaveri.   
Una bomba. Quaranta chili di miscela esplosiva a base del micidiale C4, disponibile soltanto ai militari. Chi l'aveva collocata, chi aveva ordinato quel massacro, e perchè? Il sindaco Zangheri, durante i funerali, aveva ammonito le istituzioni dello Stato:  Bologna vuole la verità, oppure sarà la gente di Bologna a giudicare voi. Il presidente Pertini, accanto a lui, annuiva.   E però trent'anni dopo a molte domande non è stata data risposta.  Zanarini ed io seguimmo le indagini ogni giorno: e ci si accorse che sulla magistratura di Bologna si era scatenato da subito un inferno di pressioni piduiste, di depistaggi, di informazioni negate proprio dallo Stato e dai suoi organi. Licio Gelli aveva suggerito “cercate una pista internazionale”, e  su quella le indagini si smarrirono a lungo.  
Ancora oggi non si è potuti andare oltre la manovalanza neofascista. Celebrato il processo, inflitti gli ergastoli agli autori materiali, tutto si è fermato. Sono scattate ferree protezioni. Il progetto politico alla base della strage non è stato disvelato. L'intreccio tra uomini dei servizi segreti, piduisti, neofascisti, mafiosi  e criminali della Magliana è stato faticosamente intuito e in molti casi provato, ma è stato impossibile risalire a coloro che avevano strategicamente pianificato l'eccidio. I mandanti hanno potuto rimanere comodamente nell'ombra.  
Negli ultimi tempi si è di nuovo suggerita una pista internazionale, quella palestinese stavolta, scaturita dai lavori della Commissione Mitrokhin. Si sono indicate presunte responsabilità di uomini legati al ben noto terrorista Carlos. Le motivazioni appaiono fragili (ritorsione per un sequestro di armi destinate al Fronte palestinese). Carlos del resto dal carcere nega, e fa notare che  il sospetto attentatore sarebbe stato davvero stupido a registrasi – come si dice abbia fatto - con nome e cognome autentici, proprio nell'albergo di fronte alla stazione. Ma tant'è: la Procura di Bologna deve andare fino in fondo, e lo sta facendo, seppure con risultati non incoraggianti.  
I magistrati di Brescia lavorano invece su un terreno più solido.  Sebbene ignorato o quasi dalla grande stampa, a Brescia è in corso  il processo per la strage di Piazza della Loggia, ancora impunita dopo  36 anni. Imputati altri neofascisti, tra cui Pino Rauti. In aula i giudici stanno tirando le fila dell'intera storia dell'eversione in Italia. 
Emergono novità importanti: tra cui l'esistenza di un servizio supersegreto e sinora ignorato, e le frequentazioni mafiose di Giusva Fioravanti prima e dopo la strage del due agosto. Si confermano inoltre le complicità con le trame di apparati spionistici stranieri – dalla Cia al Mossad - impegnati ad alimentare la strategia della tensione in Italia. Ma su tutto questo retroscena – la nostra storia - grava  il silenzio delle istituzioni. Gli archivi dei servizi restano muti. I governanti della prima Repubblica tengono per sé quanto hanno potuto sapere. I vecchi spioni vanno in pensione tacendo, o rilasciando interviste nelle quali ammettono a fatica ciò che è ormai universalmente accertato.   Nel frattempo, tanto per dare una mano, la maggioranza di governo caldeggia la proposta di prolungare i termini del segreto di Stato oltre i trent'anni fissati dalla legge appena tre anni fa. Ma soltanto – ha voluto precisare il relatore Pdl-  quando le informazioni potrebbero coinvolgere “impegni internazionali”. Ciò equivale a dire segreto per sempre, all'infinito: e per tutte le stragi italiane, da Portella delle Ginestre sino ad Ustica, ed alla stazione di Bologna. 

 


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