di Filippo Vendemmiati
Stefano Gugliotta è l’unico che può raccontare. Aldrovandi, Bianzino, Cucchi, Giuliani, Sandri, Uva la loro fine l’hanno affidata alla disperazione e al coraggio dei familiari. Ancora non ha un nome, uno statuto, una sede, l’associazione che ridarà dignità alle persone vittime degli abusi di potere, ma “Le loro voci” sono risuonate forti e chiare a Ferrara. Sono voci che non chiedono vendetta, non saprebbero nemmeno più che farsene, ma semplicemente il ripristino di una legalità per molti di loro negata o ancora sospesa. Non sono voci contro lo stato perché è lo stato ad essersi messo contro di loro, non solo negando o nascondendo.
Ha fatto di peggio. Nei processi, quando ci si è arrivati dopo prezzi morali ed economici sopportati e pagati dai parenti delle vittime, lo Stato si è sempre messo dalla parte dei suoi rappresentanti in divisa e li ha difesi.
Anche le vittime sono rappresentanti di “orrori” dello stato, per questo lo stato avrebbe dovuto costituirsi parte civile per difendere i propri cittadini e rendere pubbliche le proprie colpe.
Lo stato non può essere infallibile, ma deve presentarsi trasparente e onesto. Gli autori delle violenze a persone inermi sono ancora nel pieno servizio delle loro funzioni, in attesa che la giustizia arrivi lentamente all’ultimo grado di giudizio. In tutti questi casi prima e meglio dei reati penali, hanno descritto e provocato morte responsabilità morali e deontologiche gravissime, che giustificherebbero quanto meno la sospensione dal servizio degli autori. Non accade.
Stefano Gugliotta, 25 anni, ha la dentatura rifatta dopo le botte rimediate da poliziotti a volto coperto alla fine della partita Roma- Inter. Ora è indagato per resistenza a pubblico ufficiale e deve affrontare un processo. E’ stato in carcere e ha perso il lavoro. I cellulari, che hanno ripreso la scena, lo mostrano inerme, seduto, sullo scooter mentre viene calciato e manganellato. Ma almeno lui oggi può parlare e raccontare in prima persona, non attraverso i famigliari:
“Il capo della polizia ha detto che verrebbe voglia di chiedere scusa, ma avere voglia non è uguale a chiedere scusa. Se almeno gli agenti fossero riconoscibili, se avessero almeno un codice di identificazione sulla divisa io forse conoscerei tutti i nomi di quelli che mi hanno picchiato”.
Racconta Giorgio Sandri, padre di Gabriele, 26 anni:
“Qui a Ferrara in mezzo ad altre brutte storie, mi sento quasi fortunato perché per la morte di mio figlio c’è stato un processo e pure una condanna per omicidio colposo. Ma fra 60 giorni ci sarà il processo d’appello e spero che la sentenza di primo grado sia rivista”.
Invocano invano dal 2007 un processo il figlio Rudi e i parenti di Aldo Bianzino, perugino di 44 anni, morto in carcere due giorni dopo l’arresto per una piantina di marijuana piantata nel suo giardino.
“Sono la solitudine e l’oltraggio alla vittima i primi nemici da affrontare” dice Lucia Uva, sorella di Giuseppe, 43 anni, morto dopo una notte in caserma a Varese. “Nel mio caso, aggiunge, non solo non c’è un processo, ma non si fanno indagini”.
Ilaria Cucchi si prepara all’udienza preliminare per la morte del fratello Stefano. “Sarà una strada lunga e difficile, ma Patrizia Aldrovandi mi dà molta forza. Quando ho visto il corpo di mio fratello ho rivisto il corpo di Federico”.
Patrizia Aldrovandi e il marito Lino ricordano che sono passati già cinque anni dalla morte del figlio. “Eravamo disperati, ammette Patrizia, ma se penso al cammino percorso, a dove siamo arrivati, alle persone che abbiamo incontrato e quelle che ci hanno aiutato, oggi sono quasi felice. E’ come aver dato di nuovo voce a Federico”.
“Le loro voci” possono cominciare a parlare, in tanti ora li ascoltano.