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San Suu Kyi, la farsa elettorale e il rilascio
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di Mauro Mauri

San Suu Kyi, la farsa elettorale e il rilascio

E’ passato un mese da quando Aung San Suu Kyi è uscita dal limbo dell’isolamento, dopo aver trascorso quindici degli ultimi vent’anni ai domiciliari, nella villa di famiglia, affacciata sulle tranquille acque del lago Inya, pochi chilometri dal cuore di Yangoon, ex capitale del Myanmar. Nel Maggio 2009, qualche mese prima della scadenza dell’ultima condanna, ci fu l’elaborata pantomima da cui conseguì l’ennesimo periodo di detenzione, conseguenza dell’aver infranto l’ordinanza di non incontrar nessuno senza il preventivo consenso delle autorità, che l’accusarono di aver ospitato per un paio di giorni John Yettaw, pacifista americano in preda a visioni oniriche. Con l’intento di salvare la vita a Suu Kyi l’uomo si introdusse nella sua villa, indisturbato, per avvisarla che una fantomatica organizzazione terroristica intendeva assassinarla, dopodiché con la scusa di un malore ottenne accoglienza per un paio di giorni.
A Daw Suu (Daw è un appellativo equivalente a Madame) comunque era ben chiaro che ospitandolo infrangeva le disposizioni sugli arresti domiciliari. Nel corso del processo asserì di aver agito in base ai valori del buddhismo, che invitano ad assistere i bisognosi, proprio come quel bizzarro tipo inaspettatamente giunto a casa sua, a cui voleva evitare i problemi che sarebbero scaturiti se avesse comunicato il suo arrivo ai rappresentanti delle istituzioni governative.  
 
In ogni caso, dopo esser stata ad osservare lo scorrer della vita dalla finestra di casa, ora al Premio Nobel per la Pace tocca l’impegnativo compito di reinserirsi in un mondo che sostanzialmente le è sconosciuto, sintonizzandosi con la realtà odierna ed una serie di  cambiamenti dovuti anche alle evoluzioni tecnologiche.
Basti solo pensare a telefono cellulare ed internet, essenziali per comunicare, e che -per sua stessa ammissione- non avendo mai utilizzato, conosce solo a livello teorico, dichiarandosi sorpresa, dopo il primo incontro pubblico, nel vedere molti giovani che la fotografavano con il cellulare. 
Il periodo di detenzione ha visto il variare della società birmana e del mondo ma non della sua indole: 
“ Mi sono sempre considerata libera perché la mia mente è libera” ha dichiarato in un intervista esclusiva al portale Irrawaddy “Ho sempre camminato sul sentiero da me scelto in base al mio credo ed ai miei principi, senza mai sentirmi prigioniera. Anche quando ho potuto varcare la soglia di casa il mio animo è invariato, identico a prima, a quando ero ai domiciliari. Ora mi farò portavoce delle volontà del popolo presso la comunità internazionale, ma solo dopo che avrò compreso ciò a cui ambisce la società birmana”
 
E’infatti rimasto immutato l’animus pugnandi che la induce a lottare pacificamente per il suo popolo. Tutto iniziò per caso. Fino al 1988 viveva a Londra, col marito, accademico inglese e due figli. A Giugno si recò a Yangoon per assistere l’anziana madre, trovandosi nel mezzo delle proteste studentesche, con la gente che implorava il suo intervento in quanto figlia del Generale Aung San, eroe nazionale nella lotta di liberazione dal colonialismo inglese, dal volto che tuttora troneggia su banconote ed uffici governativi.
Le suppliche di chi era privo delle basilari libertà la indussero a restare nella terra natia a battersi, anima e corpo, abbandonando un agiata vita borghese, nonché la famiglia. Il marito, a cui nel 1997 venne diagnosticato un cancro, scomparve nel 1999. L’ultima volta che i due si incontrarono fu nel 1995, dopodiché la Giunta Militare non concesse il visto d’ingresso all’uomo, convinti che per raggiungerlo Daw Suu abbandonasse il Myanmar: l’intento del regime era di non consentirle un eventuale ritorno. L’icona birmana ha potuto riabbracciare i figli Alexander e Kim dopo ben dieci anni.
Più che un impegno politico, il suo è un impegno sociale sfociato in politica, una volontà radicata nella fede, la concreta applicazione dei valori etico morali del buddhismo, che spingono ad agire a vantaggio della collettività. A conferma, destinò all’istruzione ed al sistema sanitario birmano l’assegno di un milione di euro proveniente dall’aver ottenuto nel 1991 il Nobel per la Pace. 
The Lady -così ci si riferisce a lei in Myanmar quando è meglio evitare di nominarla- è animata da un impulso assolutamente speculare, se non identico, a quello che in ambito cristiano spinge ad impegnarsi in politica nel tentativo di plasmare la società sulla base dei Principi Evangelici, o quanto meno su un modello di vita compatibile col Verbo Cristiano.
Quando si accenna al buddhismo è doveroso precisare che Buddha non è il nome proprio di una persona bensì un appellativo, equivalente a “persona illuminata”: infatti scrittori e filosofi orientali si sono rivolti all’Uomo di Nazareth evidenziando il “Buddha che c’è in Cristo”. L’illuminato a cui solitamente ci si riferisce è Siddhartha Gautama, nato da famiglia nobile nell’India del quinto secolo A.C. 
L’impegno politico di Daw Suu Kyi, che inizia tutte le giornate con un ora di vipassana (meditazione) è incardinato nel credo religioso che alimenta volontà e determinazione nel portare avanti le sue lotte, sempre condotte all’insegna del più sincero pacifismo.  
 ”L'autentica rivoluzione è quella dello spirito, che nasce dalla convinzione intellettuale della necessità di cambiamento degli atteggiamenti mentali e dei valori che modellano il corso dello sviluppo di una nazione. Una rivoluzione finalizzata semplicemente a trasformare politiche ed istituzioni ufficiali per migliorare le condizioni materiali ha poche probabilità di successo” ha sostenuto nel libro “Liberi dalla paura” aggiungendo “Senza una rivoluzione dello spirito le forze che producono iniquità continuano a essere operative, minacciando costantemente qualsiasi processo di riforme e rigenerazione. Non è sufficiente il mero invocare libertà, giustizia e diritti umani. Ci devono essere determinazione e perseveranza nel combattere e nel sacrificarsi nel nome della verità infinita, per resistere alle influenze corrompenti come desiderio, cattiva volontà, ignoranza e paura”
Paradossalmente la sua forza, che scaturisce da una profonda fede, allo stesso tempo è la sua debolezza: l’invito dell’Illuminato è di non ferire il prossimo, nemmeno a livello verbale, per nessun motivo, trattando tutti con “mettha”, cioè amorevole gentilezza.
A proposito osserva amaro e perplesso Moe Zaw Oo, otto anni passati nelle carceri birmane, responsabile esteri della NLD: “ Le parole della “Mother of Burmese people”, i suoi appelli al regime affinché inizi a concedere qualche libertà non hanno prodotto il minimo esito. Per i Generali lo status quo odierno è ottimale poiché consente loro di continuare ad arricchirsi in modo spropositato, totalmente incuranti delle necessità del popolo” ed aggiunge: “Le elezioni sono state un giochetto finalizzato a prender tempo: ora in molte persone, in primis nelle minoranze etniche, cresce la convinzione che senza un intervento esterno –anche armato- non cambierà mai nulla”
Sulle prospettive taglia corto: “Zero se non c’è un concreto intervento internazionale: a parole ci hanno aiutato tutti. Anche troppo” e si accomiata puntando l’indice ai maggiori sostenitori del regime: India, Tailandia e -soprattutto- Cina, paesi per cui il Myanmar è soltanto un supermarket di materie prime a bassi costi. 
 
Ultima condanna ai domiciliari, farsa elettorale e rilascio. Ecco cosa accadde effettivamente....

 
A prima vista appaiono eventi completamente slegati tra loro, ma la vicenda dell’intrusione del pacifista americano nella residenza di Aung San Suu Kyi, la scadenza dell'ultimo periodo di detenzione comminato in conseguenza di ciò e la data scelta dal regime per tenere le elezioni fanno parte della medesima strategia.
Ecco cosa è realmente accaduto:  
 
“I media occidentali si bevvero la ricostruzione dei fatti della Giunta Militare, ovvero che John Yettaw, cinquantenne americano dal fisico appesantito, nell’ex Birmania soprannominato “l’idiota con le pinne”, si sarebbe recato da lei a nuoto con maschera, pinne modificate artigianalmente e taniche di plastica come galleggianti “ dichiara l’esule Aung Zaw, che dalla Tailandia dirige il mensile-portale Irrawaddy: “In realtà, dopo aver beatamente alloggiato nella Guest House governativa riservata agli ospiti di Stato, andò da lei in taxi, con l’intento -se necessario- di utilizzare le pinne per tornarsene a nuoto, convinto di poter così bypassare l’imponente dispiegamento di forze d’ordine che notte e giorno pattugliava la zona al fine di precluderle il minimo contatto col mondo esterno. Dopodiché, mentre si accingeva ad andarsene, avendo visto che ad attenderlo all'esterno c'era il medesimo taxista che lo portò -ovviamente un uomo dell'intelligence- accortosi di essere caduto in una trappola, ritornò sui suoi passi fingendo un malore per ottennere accoglienza da Daw Suu, ignara dell’accaduto”.
 
Nota: l'accesso ad University Avenue è sempre stato pattugliato con estrema attenzione e precluso alle auto che trasportavano stranieri, con molti taxisti che preferivano non percorrere il tratto in prossimità dell'abitazione di Aung San Suu Kyi.   
 
Ecco alcuni retroscena: il regime era alla ricerca di una scusante per prolungare i domiciliari, in scadenza a Novembre dello stesso anno, senza irritare ulteriormente la comunità internazionale. E poi c’erano le elezioni, paventate nel tentativo di far uscire il Myanmar dalla morsa delle sanzioni. Yettaw capitò a proposito. Nel Dicembre 2008, durante un precedente viaggio nel Myanmar ed in Tailandia, a Mae Sot, dove c’è la sede della NLD in esilio, aveva dichiarato ai quattro venti le sue intenzioni, ovviamente raccolte dall’intelligence di Yangoon, che ha uomini piazzati in tutti i posti nevralgici. Per loro fu un gioco da ragazzi “incanalarlo” affinché attuasse il suo strampalato piano, ideale per infliggere al Premio Nobel un’altra condanna.
 
Sul versante politico, per quanto concerne il giorno in cui la terra delle pagode dorate si sarebbe recata alle urne, il diabolico Generale Than Shwe, dall’orwelliano titolo di “Senior General Number One” aveva escogitato l’ennesimo stratagemma che si rivelò perfetto, facendosi di nuovo beffe della Comunità Internazionale: la data venne scelta in base alla scadenza del periodo di domiciliari. 
 
“A metà Agosto venne comunicato che le elezioni si sarebbero tenute il sette Novembre. Già si sapeva che era un farsa e che avrebbe vinto l’USPD - partito fantoccio del regime- e che pertanto ci sarebbero state le vibranti proteste della Comunità Internazionale, o meglio di chi si illuse che la chiamata alle urne fosse il primo passo verso il cambiamento. Si sapeva pure che il tredici di Novembre sarebbe terminata la condanna ai domiciliari” Ecco il coniglio che il regime estrasse dal cilindro, conclude Aung Zaw: ”Rilasciare ASSK pochi giorni dopo le elezioni, evento che avrebbe catalizzato l’attenzione, spostando i riflettori mediatici internazionali dalla farsa del voto” 
 

 


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