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Dopo Ginevra, Istanbul!
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di Nicola Mirenzi

Dopo Ginevra, Istanbul!

Stati Uniti e Israele sono riusciti a rallentare significativamente, grazie a un sofisticato attacco informatico, il programma nucleare iraniano. La notizia arriva a pochi giorni dal vertice di Istanbul, dove i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu (Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna,Francia) più la Germania si sono dati appuntamento con i leader della Repubblica Islamica per cercare di trovare una soluzione alla disputa sull’atomica di Teheran (che secondo il presidente Ahmadinejad ha solo scopi civili; mentre il sospetto degli Stati Uniti è che l’obiettivo finale dell’Iran sia dotarsi della bomba atomica). Alla luce di questa rivelazione però il summit assume un significato molto diverso da quello che gli si era dato convocandolo. Perché – scongiurato il pericolo che Teheran si doti in tempi brevi dell’arma atomica – Washington può non solo tirare un sospiro di sollievo ma anche negoziare da una posizione di forza.

Gli esperti dicono che il sabotaggio operato congiuntamente da Stati Uniti e Israele, con l’uso di un sofisticato virus, impedirà all’Iran di munirsi della bomba atomica almeno fino al 2015. Sia Washington sia Tel Aviv non hanno rivendicato pubblicamente il cyber attacco sferrato ai danni dei software iraniani, ma – come ha raccontato il New York Times in una lunga inchiesta – è stato proprio il presidente Barack Obama (riprendendo un piano predisposto negli ultimi mesi della presidenza Bush) a spingere su questa linea. E così hanno fatto anche i vertici israeliani. Che per la prima volta nell’ultimo ventennio, invece di attirare l’attenzione del mondo sull’imminenza della minaccia nucleare iraniana, hanno spostato le lancette dell’orologio avanti di qualche anno.

Il vertice di Istanbul del 21 e del 22 gennaio non è il primo che  si tiene sulla questione del nucleare iraniano. Nell’ottobre del 2009 il meeting di Ginevra si era chiuso con un accordo che prevedeva che Teheran mandasse fuori dai suoi confini l’uranio impoverito per arricchirlo in un paese terzo (la Russia) e poi farlo rientrare in patria, pronto per l’uso (civile). L’Iran ha però disatteso l’impegno preso, suscitando le preoccupazioni della comunità internazionale, che è intervenuta sanzionando la Repubblica Islamica. Erdogan e il brasiliano Lula tentarono sino all’ultimo minuto di evitare le sanzioni contro Teheran, premendo per una soluzione diplomatica, ma l’accordo che erano riusciti a strappare a Tehran venne giudicato intempestivo sia dagli Stati Uniti sia dalle altre nazioni, che infatti lo rifiutarono. Il lavoro di mediazione di Brasilia e Ankara  è stato tuttavia molto apprezzato dagli ayatollah, che proprio per questo hanno proposto Istanbul come sede del vertice.

Solo che il ruolo della Turchia, in questa occasione, è solamente quello di paese ospitante, sebbene il ministro degli esteri turco Ahmet Davutoglu abbia detto che Ankara è pronta ad assumersi maggiori responsabilità in qualsiasi momento. La Turchia, come Stati Uniti e Israele, si oppone a un Iran munito di bomba atomica, perché ciò sposterebbe i rapporti di forza nell’area mediorientale totalmente a suo sfavore. Nello stesso tempo però, Ankara preme per una soluzione diplomatica della crisi, poiché il suo orizzonte fondamentale in politica estera è quello di un medioriente stabile e pacificato, all’interno del quale possano svilupparsi rapporti economici, commerciali e politici.

Chi si presenta molto indebolito all’appuntamento è quindi l’Iran. La cui situazione economia interna è tutt’altro che serena. Il malcontento sociale cresce parallelamente all’impennata dei prezzi (il costo della benzina si è addirittura quadruplicato) e rischia di legarsi al malcontento politico che già circonda il governo di Ahmadinejad sin dalla sua rielezione nella primavere del 2009. Alcuni osservatori sostengono che la situazione iraniana sia esplosiva quanto quella algerina e rischi di degenerare. Il pericolo è allora che il vertice di Istanbul, dal quale non ci si può attendere una svolta definitiva, serva ai governanti iraniani per agitare l’argomento del nemico esterno che insidia le sorti della nazione e incanalare così  verso l’esterno la frustrazione popolare.


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